Ordinati per il servizio

Quarant'anni dopo il Concilio, il significato del 'primo grado del sacerdozio' resta in gran parte da scoprire e realizzare

“Il diaconato potrà in futuro essere ristabilito come proprio e permanente grado della gerarchia”. Non lo scrive un documento qualsiasi, ma l’autorevolissima Lumen Gentium. Il documento, al n. 29, ricorda che “ai diaconi sono imposte le mani non per il sacerdozio, ma per il servizio”. Il diacono è consacrato dal vescovo e non può essere considerato un semplice sacrestano (senza far torto ai sacrestani!).

Lo sottolinea don Loris Giacchi, che sollecitato dalla mia domanda, ricorda il clima che si respirava una ventina d’anni fa quando “mons. Urru mi chiamò perché ero direttore dell’ufficio liturgico e mi disse: ‘Desidero instaurare il diaconato in diocesi. Lo metto nelle tue mani'”. Don Loris racconta anche delle difficoltà, superate grazie alla vicinanza del Vescovo che mise anche a disposizione l’episcopio per le riunioni con i candidati, primi ordinati: Giuseppe Garreffa, Angelo Monti, Franco Marianelli, Romeo Romanini.

Ma cosa vuol dire che il diacono è il segno della Chiesa impegnata nella carità? Don Loris risponde richiamando anzitutto la Scrittura: “Nel Nuovo Testamento il diacono è il servitore che si presta volontariamente al servizio alla comunità. La vita del diacono Filippo ci dice però che i diaconi furono anche evangelizzatori. I diaconi oggi devono essere i servi nella Chiesa nel senso che donano la propria vita, il proprio cuore, la propria mente, tutto se stessi, per il bene di servizio della comunità e per donare in tutto per tutto Cristo agli altri”.

Proviamo a tracciare un bilancio di 18 anni: “Abbiamo trovato molte difficoltà, dato che in pochi hanno accettato il diaconato, ed in molti lo hanno ostacolato. Però, grazie a Dio, c’è da fare anche (e soprattutto, n.d.r.) una valutazione positiva: sono diverse le parrocchie in cui i diaconi sono stati inseriti bene, anche se forse si pensa alla loro utilità solo per i funerali o per le benedizioni alle famiglie”.

Anche Giuseppe Garreffa torna con la memoria a quando don Livio Tacchini gli fece la proposta di diventare diacono. Era allora un “clima festoso, la cosa era nuova e nessuno conosceva lo specifico del diaconato”. Forse – aggiunge – anche oggi bisogna riflettere su quale sia lo specifico del diacono in una Chiesa ministeriale. Oggi Giuseppe è impegnato con la Caritas diocesana, ma ha presente la vita della comunità di Cerbara dove ha prestato servizio per tanti anni: quella era “una grande cosa’ la parrocchia mi manca, mi mancano i malati’ il clima familiare”.

Guardando in prospettiva, Giuseppe vede con preoccupazione la mancanza di forze di ricambio, anche tra i diaconi. Ma, è sua opinione, “occorre creare sempre più, tra di noi diaconi, un rapporto più fraterno. Più che pensare ad essere di rincalzo ai preti che mancano dobbiamo cercare la nostra strada nella Chiesa”. Il diacono – per concludere con una battuta – deve essere al servizio della comunione all’interno di una comunità.

AUTORE: Francesco Mariucci