Papa Francesco e la prossimità alle popolazioni ferite

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Ogni viaggio apostolico di Papa Francesco è stato un andare verso destinazioni poco prevedibili. A cominciare da Lampedusa fino ad Ajaccio per presiedere la sessione conclusiva di una conferenza sulla ‘religiosità popolare nel Mediterraneo’. Ha scelto terre in cui il cristianesimo era uno stelo esile, i cristiani erano minoranza.

Si è fatto prossimo alle popolazioni ferite dalla violenza della guerra come Congo e Sudan o, ancora, terre in cui bisognava incoraggiare un cammino di riconciliazione. Periferie geografiche ma anche periferie esistenziali. Quando nel 2011 lo conobbi a Buenos Aires, Arcivescovo di quella diocesi, rimasi colpito proprio da quel tratto che lo portava a mettere al centro le vittime dell’esclusione in tutte le sue espressioni.

E anche quando l’ho incontrato privatamente (l’ultima volta il 30 gennaio, pochi giorni prima del suo ricovero ospedaliero) ho solo ricevuto conferme di quella tenace volontà. Per questo credo di poter considerare il Discorso Urbi et Orbi del giorno di Pasqua, ultima sua apparizione pubblica, come il testamento che passa in rassegna ogni angolo della terra vittima di guerra e implora la pace. “Vorrei che tornassimo a sperare che la pace è possibile!” è il distillato di un pontificato che si rivolge all’umanità intera e non solo ai credenti.

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