Per comunità immigrate più responsabili – La “provocazione” di Rolando Marini/1

Sono passati ben 34 anni dalla promulgazione della legge regionale umbra che, in modo lungimirante e anticipatorio, impegnava le istituzioni su un’ampia gamma di interventi a favore degli immigrati non comunitari e dei loro familiari. La legge regionale 18 del 1990, riletta oggi, sorprende per la capacità di disegnare un quadro di prospettiva di quella che chiamiamo società multiculturale o interetnica.

Queste espressioni si rivelano spesso inadeguate a rappresentare le trasformazioni, anche contraddittorie, che ci troviamo a vivere e a osservare in conseguenza dei flussi migratori. Ma quella legge, senza usarle, ne offriva una sostanza politica e progettuale, basata sulla pluralità dei gruppi sociali e sulla loro interazione dialogante e solidaristica.

Tante cose immaginate, che hanno dato vita al sistema dell’accoglienza, alla cura delle identità, alla co-progettazione di eventi culturali e interventi di sostegno, alla ricerca sociale sull’immigrazione. Hanno definito un quadro di riferimento per le azioni di sistema che, a tutti i livelli appunto, sono tese al godimento dei diritti sociali da parte degli immigrati, i diritti che contano dopo l’accoglienza (lavoro, salute, istruzione, formazione).

Una legge innovativa

Un modello, anche perché prevedeva e ha largamente realizzato – va ammesso – un intreccio collaborativo virtuoso tra varie entità: istituzioni, associazioni locali laiche e religiose, associazioni di migranti vecchie e nuove.

Queste azioni di sistema, grazie alla programmazione incardinata nella legge 18, hanno creato innovazione sociale. Poi non solo in Umbria, che pure ha fatto da apripista.

In che senso? Un sistema misto composto da stato, enti locali, sindacati e moltissimo terzo settore, cioè cooperative, associazioni, entità della Chiesa (si pensi al ruolo cruciale e ingente delle Caritas diocesane).

Un nuovo modello di welfare per gli immigrati

Un nuovo modello di welfare, che prova a gestire (forse virtuosamente, ma con tante falle) le scarse risorse che lo “stato sociale” di oggi riesce a indirizzare verso le nuove frontiere dei diritti e della coesione sociale (queste due cose vanno insieme, ancora). Creazione innovativa e anche creativa di cittadinanza sociale.

A fianco dell’assistenza ai “bisognosi”, che comunque mantiene la sua tipica rilevanza nel mondo migrante, si è sviluppato un aspetto virtuoso che tuttavia oggi segnala un problema emergente o una “controindicazione”. Si è infatti formato un ampio campo di mediazione culturale, o meglio di intermediazione e facilitazione comunicativa e burocratica nel rapporto con la pubblica amministrazione.

Quello che serve ad assistere e orientare i cittadini immigrati a fruire dei servizi, a svolgere le pratiche che precedono la fruizione dei servizi: permesso o carta di soggiorno, contratto di lavoro, Isee, documenti, domande e iscrizioni varie (tipiche attività di un patronato).

Ma assistenza non è neanche sinonimo di cittadinanza.

Dopo 34 anni: dall’assistenza alla cittadinanza attiva

Dicevo all’inizio che sono passati 34 anni da quella bella legge. Le associazioni dei migranti sono cresciute insieme con questo sistema. Penso però che si siano sin troppo abituate ad uno schema assistenziale.

E su questo siano, in larga parte (salvo le eccellenze), rimaste ferme. Ferme a pensare ad uno svantaggio immodificabile, un empowerment non percorribile. Questo vale a livello individuale, certo; ma soprattutto a livello di comunità, da cui potrebbe partire l’impulso proattivo. I cittadini immigrati e le loro comunità e associazioni dovrebbero assumere un approccio diverso: passare dalla cittadinanza passiva a quella attiva. Non delegante in automatico, ma più partecipante e responsabile.

Rolando Marini
ProRettore Università per Stranieri di Perugia

(Intervento tenuto al primo incontro di Voci dal mondo, a Terni)

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