Preti santi, senza retorica

Anno sacerdotale. Riflessioni del rettore del Seminario regionale, don Nazzareno Marconi

L’Anno sacerdotale indetto dal Papa è, per noi umbri, un motivo in più per riprendere in mano la lettera pastorale dei nostri Vescovi ‘Preti per l’Umbria di oggi’. Fu presentata e affidata ai Consigli presbiterali diocesani in convocazione congiunta. La riunione si sciolse con l’impegno a proseguire la riflessione e il confronto su questo tema. Riprendiamo il discorso con due contributi – questa settimana e la prossima – del rettore del Seminario regionale umbro, don Nazareno Marconi. Nel prossimo numero metterà a fuoco la ‘terza via’ cui accenna in questo articolo. Aspettiamo il vostro contributo di preti, laici e religiosi, uomini e donne, sul ‘Prete per l’Umbria di oggi’, scrivendo all’indirizzo email: direttore@lavoce.it. Il prossimo 19 giugno, festa del Sacro Cuore di Gesù, è la data scelta dal Papa per l’inizio dell’Anno sacerdotale. Tra i preti, ed anche tra i laici, quest’uso di caratterizzare ogni anno pastorale con un qualche tono eccezionale (di fatto dobbiamo ancora concludere l’Anno paolino) non raccoglie subito grande entusiasmo. Ma, passato questo primo istinto di disagio, vale la pena domandarsi in positivo: cosa ci chiede di approfondire questo tempo? Come viverlo senza eccessi e senza perdere il passo del quotidiano, come d’altra parte il Papa propone spesso e con chiarezza? L’occasione è il 150’anniversario della morte di un prete eccezionale, così calato nel concreto e nel suo servizio quotidiano da non essere identificato col suo nome, Giovanni Maria Vianney, ma dal suo servizio: ‘il Curato’, il parroco di un minuscolo villaggio della campagna francese, Ars. Se l’Anno sacerdotale avesse come fine generale, pur con le dovute importantissime proporzioni, di farci conoscere meglio questo santo, come ha fatto egregiamente con san Paolo l’anno che sta per concludersi, non sarebbe stata certo una fatica inutile. Paolo, prima di quest’anno era per quasi tutti ‘l’autore incomprensibile di lettere inviate a destinatari molto improbabili’. Così il Curato d’Ars, che ai più è ignoto, anche tra i suoi stessi ‘estimatori’ è tramandato secondo schemi semplicistici. Quasi nessuno conosce ad esempio l’importanza che ha avuto nella sua azione pastorale, fin dai primissimi anni, la promozione sociale delle ragazze povere: con la creazione di una scuola gratuita e di una casa per le orfanelle, ‘la Providence’, gestita non da suore ma da tre giovani laiche. Questo Anno sacerdotale spero sia anche l’occasione per riflettere ecclesialmente sull’identità e sul compito del prete, in questo particolare momento di trapasso culturale. I nostri Vescovi umbri hanno già anticipato questa tematica, proponendola con la lettera pastorale Preti per l’Umbria di oggi, diffusa nei mesi scorsi. La presentazione di questa lettera, in una significativa riunione congiunta dei Consigli pastorali delle otto Chiese umbre, di cui La Voce ha dato ampio resoconto, ribadiva la necessità di una riflessione comune che doveva vedere nella Lettera un nuovo punto di partenza, piuttosto che un punto di arrivo.Per contribuire a questa nuova riflessione propongo sinteticamente alcune provocazioni. Prete e comunità ecclesialeLa lettera dei nostri Vescovi ha chiaramente collocato la vocazione e l’identità del prete entro la comunità ecclesiale. Se la vocazione religiosa potrebbe essere centrata sul desiderio di santificazione del giovane che l’abbraccia come scelta personale, la vocazione al presbiterato è invece primariamente un mettersi a servizio della Chiesa, un rispondere ad una scelta che resta sempre nelle responsabilità della comunità attraverso il Vescovo. Non ci si fa prete da soli, né si sceglie da soli di diventarlo per cercare la santità. Si può solo dare la disponibilità ad essere scelti per un servizio che sarà sempre un dono della Chiesa, mai meritato.Per questo prete e vocazione al presbiterato sono temi profondamente intrecciati con l”oggi’ della Chiesa. Ciò non semplifica certo il discorso in questo particolare momento storico, che viene sempre più spesso descritto – da contributi anche molto autorevoli – come un momento di confronto, se non di scontro, tra due interpretazioni del Concilio e di conseguenza della ecclesiologia, cioè della identità e del compito della Chiesa, del suo rapporto con il mondo. L”oggi’ della ChiesaCi sono oggi fatti evidenti riguardanti il mondo e la Chiesa che chiunque riconosce come veri ed insieme come problematici. Il primo fatto è la riduzione del numero dei praticanti assidui. Il secondo, che ne è al tempo stesso la conseguenza ed in parte la causa, è la riduzione del numero di vocazioni, sia religiose che presbiterali. Meno marcata, terzo fatto, è la riduzione nella richiesta di servizi religiosi di massa: molti chiedono la celebrazione della messa (possibilmente vicina, in orario comodo e con una predica ‘corta e significativa’), dei sacramenti e delle esequie. Crescente, generalizzata ed anche autorevole è la richiesta di una presenza caritativa della Chiesa, molto apprezzata ma spesso solo per i valori morali che porta con sé nella vita. Questa situazione sociale di fatto favorisce l’estremizzazione di due visioni della relazione Chiesa/mondo nel post-Concilio e di conseguenza a due opposti modelli identitari del prete: potremmo chiamarli il modello dello scontro e quello dell’apertura incondizionata. Il prete e il mondoIl modello dello scontro estremizza una lettura ‘continuista’ del Concilio, negando ai documenti conciliari di aver introdotto una novità nell’atteggiamento e nella valutazione della Chiesa riguardo al mondo moderno. Tra lotta anti-modernista e Vaticano II, secondo i più estremisti di questo modello di lettura, ci sarebbe solo una leggera correzione del vocabolario dei documenti, ma nulla cambierebbe nella sostanza. Il modello opposto, quello dell’apertura incondizionata, estremizza una lettura ‘rivoluzionaria’ del Concilio. Quest’ultimo avrebbe inaugurato uno stile del tutto nuovo di relazione tra la Chiesa ed il mondo, che tra l’altro andrebbe portato avanti in un’opera di secolarizzazione progressiva di quanto è religioso, trasformandolo in pura azione sociale. Il prete e la santitàA ben vedere, dietro queste polarizzazioni stanno anche due modelli di santità, opposti, in parte veri, ma troppo limitati. E soprattutto pericolosi se presi a modello per definire un cristiano santo ed anche un prete santo. Nel primo caso la Chiesa si arrocca, condanna il mondo ed i suoi peccati in maniera sempre più chiara e dettagliata, e cerca così di far brillare la Verità evangelica. Nella illusoria ricerca di costruire così una Chiesa tanto convinta, pura e santa da convertire il mondo affascinandolo. Il rischio di questa santità inarrivabile – e sempre più rinchiusa nella nicchia – mi sembra la mancanza di carità, di quell’amore del Padre del prodigo che va verso il figlio per abbracciarlo quando questi è ancora peccatore e molto poco convinto del suo errore.Nel secondo caso la Chiesa cancella ogni identità per perdersi nel mondo, si lascia dettare l’agenda ed i valori dall’opinione comune e maggioritaria. La vicinanza al mondo, la carità che si fa prossimità rischia qui di perdere ogni capacità di leggere e riconoscere in sé e fuori di sé il male. È l’insignificanza che non porta nulla all’altro. Come in certe coppie in cui un coniuge si annulla così tanto per compiacere il partner da giungere a perderlo, perché distrugge l’amore. L’amore vero è infatti anche confronto, ricerca comune, capacità di correggere e lasciarsi correggere. Non solo volere bene, ma volere anche quello che onestamente si crede il vero bene dell’altro. La carità, senza verità, si trasforma in complicità insipida. La ‘terza via’ tra questi estremismi mi sembra possa descriversi come ‘il coraggio del dialogo’. La via della santità, l’ideale di Chiesa e di prete che il post-Concilio ci chiede, nella tematica cruciale del rapporto Chiesa/ mondo, si può descrivere così: un prete capace di avere il coraggio del dialogo con il mondo.

AUTORE: Nazzareno Marconi