Profughi, crisi climatica, jihadismo: noi e il Sahel

Quando parliamo di emergenze, forse non abbiamo veramente presenti le mappe del dolore, della fame, della paura e della disperazione.

Filippo Grandi, alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), ha appena terminato un giro di ricognizione nell’area del Sahel per raccogliere “dati” che sono persone in carne e ossa. Alla fine di giugno, 4,8 milioni di persone risultano sfollate in Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger. Sono spinte a scappare via dai loro rispettivi Paesi per via dell’azione del terrorismo e per le condizioni climatiche; e molto spesso vengono accolte nei campi profughi di nazioni poverissime anch’esse.

Tra i campi che Grandi ha visitato nei giorni scorsi c’è quello di Kalambari, a una trentina di chilometri a sud di N’Djamena, capitale del Ciad, dove vivono circa 8.000 rifugiati provenienti dal confinante Camerun. Una folla che non possiamo continuare a ignorare e che interpella fortemente le nostre coscienze.

Grandi continua a segnalare che il fenomeno del jihadismo non si può contrastare ricorrendo alla sola azione militare. È piuttosto necessario uno sforzo maggiore nella lotta alla povertà, al sottosviluppo e per l’istruzione. E adesso che cominciamo a toccare con mano i disastri che i cambiamenti climatici provocano anche da noi, possiamo comprendere cosa significano per il Sahel.