Nel novembre del 1942, presso El Alamein, in Egitto, l’esercito britannico vinse contro quello tedesco e contro quello italiano una battaglia di grande rilievo strategico. Il primo ministro inglese, Churchill, commentò: “Non è ancora la fine della guerra, e neppure l’inizio della fine; ma possiamo dire che è la fine dell’inizio”.
In effetti, poi quella guerra la vinse, ma ci vollero altri due anni e mezzo. Donald Trump non assomiglia affatto a Winston Churchill; quanto meno gli manca la lucidità di non suonare le trombe della vittoria con troppo anticipo; non perde occasione per vantarsi di avere portato la pace in Medio Oriente dopo due o tremila anni di guerre; il che mi sembra un tantino esagerato. Il fatto è che il risultato raggiunto per ora non è ancora la pace, ma solo una tregua per avviare le discussioni intorno a un progetto di pace. Sia chiaro che anche una tregua provvisoria va benedetta e ci rende felici. Ma chiamarla per quello che è – e non il trionfo della pace – non ha solo il pregio dell’onestà.
Mettere in luce che ci sono ancora nodi da sciogliere aiuta a trovare il modo di farlo; nasconderlo lo rende più difficile. E non sono nodi da poco. Il principale sarebbe chiarire se avrà un futuro, e quale, la formula “due popoli, due stati”; formula che gli israeliani per molto tempo hanno accettato (salvo ostacolarne la attuazione) ma ora respingono. Pensano forse ad uno stato bilingue e paritario, come è adesso il Belgio? Neanche per sogno. Israele, fin dal nome, è e vuol essere lo stato degli ebrei e di nessun altro.
Per recuperare a pieno la propria identità nazionale – ne hanno tutto il diritto – gli israeliani sono riusciti a far rivivere, come lingua parlata nel quotidiano, quella che era una lingua morta già al tempo di Gesù Cristo (Gesù parlava aramaico, Saulo di Tarso greco). Per non parlare delle vessazioni e delle rapine che hanno subìto e subiscono i palestinesi della Cisgiordania. Quali diritti, quale autonomia, avranno nel nuovo Grande Israele? Trump non ne parla, ma nel suo discorso del 13 ottobre al parlamento israeliano, subissato di ovazioni, ha lasciato intendere che il futuro dei palestinesi non è nel suo orizzonte. Prospettiva inquietante, tanto più se a lui pare che dove siamo ora non è la fine dell’inizio né l’inizio della fine, ma il punto di arrivo.
