Quel “babbo” un po’ galeotto

E cosa fa il suo frugoletto? La domanda mi ha lasciato disorientato. Stavo con una signora milanese che non vedevo da trent’anni, da quando, ragazza intelligente e generosa, era più volte salita a S. Girolamo per prendere parte ad uno dei tanti campi di lavoro estivi che, tra il 1972 e il 1984, erano stati allestiti per sistemare la mia Comunità nel vetusto conventino sul Monte Ansciano. “Il suo frugoletto”: d’istinto mi sono girato, forse “suo” voleva dire “di lui”. E invece voleva dire “di lei”, cioè di me. Alle mie spalle non c’era nessun “lui”. Ah! Caspiterina, alludeva a Franchino, il “frugoletto” che nel 1975 adottai con procedura ordinaria, e tutt’ora vive con me, dorme nella mia stessa stanza, ma tutto è tranne che un frugoletto. È un omone che dalla sua carrozzina a volte sbraita sbraita, con il suo linguaggio disartrico e aggressivo, a volte si abbandona a risate grasse e contagiose, a volte sa essere dolcissimo, a volte bestemmia. Nella terra del più Santo degli Italiani e del più Italiano dei Santi ha trovato anche questo. Frugoletto. Già allora mi raggirò. Ignobilmente, per mia fortuna. 1974, dall’Ospedale Pediatrico di Siena ci avevano detto: c’è qui un bambino di dieci anni, che da quando ne aveva quattro è qui da noi, solo perché non sappiamo dove altro depositarlo. Andammo. Mi chiamò babbo, e io presi fuoco. Erano gli anni in cui venivano ideologizzati anche i canguri artificiali. “Babbo! M’ha chiamato babbo! Ma non la sentite, la pregnanza semantica di questo appellativo inconsueto. A noi preti ci chiamano Padre, lui m’ha chiamato Babbo! Vuoi mettere?! La mattina dopo incontrai per caso, a Perugia, Giorgio Battistacci. Gli raccontai l’accaduto. Mi disse “Perché non lo adotti?”. Ma: niente “ma”, una legge recente richiedeva un clima familiare, non necessariamente dei coniugi. Iniziai subito le pratiche per l’adozione, che quell’amico impagabile spinse al massimo: tre mesi dopo Franco prendeva il mio cognome. Io intanto ero andato a prelevarlo a Siena, per portarlo con noi, a Gubbio. Guidavo il pulmino. Al primo semaforo, per poco investivo un passante. E Franchino gridò, rivolto a lui: “Babbo!” Poco più avanti ci accodammo ad una camioncino scoperto che trasportava un vitello grassoccio, presumibilmente verso il riposo eterno. E lui lo apostrofò: “Babbo!”. Accostai alla prima piazzola. Già. Bisogna che mettiamo le cose in chiaro. Le cose vennero subito in chiaro: “babbo” era l’unica parola che Franchino conosceva. Fu una bella fregatura. Trent’anni fa. Grazie a Dio, una bella fregatura. Adesso è qui vicino a me, e se la ride per i fatti suoi. Non gli si può nemmeno dire “Figlio di buona donna”, perché è vero.