I cinque referendum messi ai voti i giorni 8 e 9 giugno scorsi hanno avuto l’esito che logicamente ci si doveva aspettare: il numero dei votanti è rimasto molto al sotto della soglia del 50% (più uno) degli aventi diritto, che è la condizione richiesta per la validità di questo tipo di consultazione. L’esito era previsto, perché ad esso concorrevano diversi fattori: l’assenteismo generale che si riscontra anche nelle elezioni politiche; e il fatto che i quesiti – a dir poco – non erano tali da appassionare gli elettori. Ma, soprattutto, a determinare l’astensione è stato un fatto che pure doveva apparire chiaro ai promotori. E cioè che questi referendum sarebbero stati percepiti dall’elettorato come una sorta di plebiscito a favore o contro le forze politiche di opposizione e rispettivamente quelle di maggioranza.
In pratica, il messaggio pervenuto all’elettorato era il seguente: chi si riconosce nei partiti di opposizione, vada a votare; tutti gli altri non ci vadano (e così facciano fallire i referendum). Presentare le cose in questo modo sarà stato sleale; ma era inevitabile, e anche prevedibile, che Meloni e soci lo facessero, e lo hanno fatto. In questa situazione, il famoso quorum si poteva raggiungere solo se in Italia gli elettori favorevoli all’attuale opposizione fossero la maggioranza assoluta di tutti gli aventi diritto al voto: cosa che chiaramente non è.
Si capisce, allora, che i promotori dei referendum (la Cgil di Landini, il Pd di Schlein, altre formazioni di sinistra) non puntavano in realtà a modificare le leggi – risultato irraggiungibile e, diciamolo pure, anche di scarso rilievo – ma a dare una sveglia alla base, coinvolgere l’elettorato, dare una prova di vitalità.
Questa impostazione li condannava a mancare il quorum, come sarebbe accaduto comunque; ma permette loro di dire, oggi, che se si contano i “sì” ricevuti sulle schede (circa dodici milioni in ciascuno dei quattro quesiti in materia di lavoro) si ha un numero che lascia sperare bene. Non basterebbero per vincere le elezioni politiche, ma ci sono anche elettori che voterebbero centrosinistra ma non sono andati a votare ai referendum, e altri che ci sono andati – per far dispetto a Meloni – ma hanno votato no. Insomma, Schlein e compagni si possono consolare: ma ne valeva la pena? E per vincere, può bastare far politica con questi metodi?