Nuove puntate della telenovela dei contrasti fra la maggioranza di governo e la magistratura – anche con uno sciopero indetto dai magistrati per giovedì 27 febbraio. Cercheremo di fare un riassunto.
Si può cominciare da quando Montesquieu, nel 1748, in pieno Illuminismo, formulò la dottrina della separazione dei poteri, quale pilastro di una società modernamente liberale. Quel tipo di società fu realizzato pochi decenni dopo negli Stati Uniti d’America e nella Francia rivoluzionaria e poi napoleonica. Ed è ormai un principio acquisito (almeno nominalmente) in tutti gli stati moderni. Comporta, fra l’altro, due effetti importanti.
Primo: se è vero che il governo e le autorità amministrative hanno il diritto (e il dovere) di prendere le decisioni che spettano alla loro competenza, il privato cittadino può tuttavia chiedere che i giudici verifichino se quelle decisioni siano legittime e in caso contrario le cancellino.
Secondo: le persone che democraticamente sono state investite dei più alti poteri politici non per questo sono esonerate dal rispettare le leggi comuni, nella vita pubblica come in quella privata, e se commettono reati sono punibili come tutti. Tutto abbastanza chiaro e condivisibile. Ma ecco che un sottosegretario viene giudicato e condannato (in primo grado) per un reato che sarebbe di poco conto, ma dimostra che è un uomo poco adatto a una funzione così elevata.
Oppure: il governo dà certe disposizioni riguardo al trattamento dei profughi che chiedono asilo, ma quelle disposizioni restano sulla carta perché non ottengono, da parte dei giudici, la convalida che per legge sarebbe necessaria. Si capisce che in un caso come nell’altro le sentenze dei giudici non sono le Tavole del Sinai e che quindi potranno essere ridiscusse in secondo e terzo grado (fra parentesi: il sistema giudiziario italiano è il più garantista del mondo quanto alla possibilità di ricorrere, per ogni più piccola questione, ad un giudice superiore e poi ancora ad un altro e così via). Ma si capisce anche che se un giudice dà torto al governo – o condanna per un qualche reato un uomo politico – fa quello che è suo compito fare in uno stato che vuol essere liberale e democratico: non un atto eversivo. Così dicevano, infatti, anche gli esponenti dell’attuale maggioranza di governo, fino a che loro erano all’opposizione e a governare erano gli altri.