Si trasfigurò davanti a loro

Commento alla liturgia della Domenica a cura di mons. Vincenzo Paglia vescovo di Terni - Narni - Amelia II Domenica di Quaresima - anno B

Ci siamo addentrati nella Quaresima. La Parola di Dio continua a farci uscire dalla prigionia dell’amore per noi stessi per condurci più in alto, molto più in alto delle nostre banalità. La liturgia di questa santa domenica è come dominata da due montagne che si stagliano alte, affascinanti e terribile, di fronte alla banalità del nostro quotidiano: il monte Moria che la tradizione posteriore identificherà simbolicamente con il colle del tempio di Gerusalemme – il monte Tabor; il monte della prova di Abramo e il monte della trasfigurazione di Gesù.

Il libro della Genesi ci presenta quel terribile e silenzioso viaggio di tre giorni, affrontato con fede dal patriarca Abramo verso la vetta della prova: è il paradigma di ogni itinerario di fede, e dello stesso cammino quaresimale. È un percorso difficile e combattuto, accompagnato solo da quel comando implacabile “Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami e offrilo in olocausto!”. Poi il silenzio. Silenzio di Dio, silenzio di Abramo, silenzio del giovane e ignaro Isacco, una sola volta, con ingenuità straziante, “si rivolse al padre e disse: Padre mio! – Eccomi, figlio mio – Dov è l’agnello per l’olocausto? – Dio stesso provvederà, figlio mio!”. È la fede al livello più alto o, se si vuole a quello semplice e puro del bambino che si fida totalmente del padre senza alcun tentennamento (“se non ritornerete come bambini…”, dirà Gesù).

Abramo deve rinunciare alla sua paternità per appoggiarsi unicamente alla parola di Dio. È  la fede allo stato puro, si potrebbe dire. Non è il figlio Isacco ad assicurargli la posterità ma solo la Parola del Signore. Sì, solo la Parola del Signore è la roccia su cui fondarsi, il bastone su cui appoggiarsi, il fondamento su cui costruire. Dio lo mette alla prova facendogli balenare la possibilità della distruzione della sua paternità. E così, dopo la prova Abramo riceve Isacco non più come figlio della sua carne ma come il figlio della promessa divina, il figlio della Parola. Egli, che pure aveva rinunciato alla vita di Isacco, lo ritrova colmo di gioia, così come quel padre misericordioso della parabola evangelica fu pieno di gioia nel ritrovare il figlio prodigo “che era morto ed era tornato alla vita”. Abramo che accoglie Isacco, ci offre un esempio di fede che lo farà venerare dalle generazioni future di ebrei, cristiani e musulmani, come “padre di tutti i credenti”. Su quella vetta, il credente si scopre figlio dell’amore assoluto e per questo esigente, di Dio. La fede di Abramo ci accompagni nel nostro pellegrinare di ogni giorno.

La montagna della trasfigurazione, che la tradizione successiva identificherà con il Tabor, si pone come termine di questo viaggio, il viaggio di ogni settimana e dell’intera vita. Il Signore ci prende e ci conduce con sé sul monte, così come fece con i tre più amici perché vivessero con lui l’esperienza della comunione intima con il Padre; un’esperienza così profonda da trasfigurare il volto, il corpo e persino i vestiti; tutto, dentro e fuori. C’è chi suggerisce che il nucleo storico del racconto si basa su un’esperienza che ha colpito anzitutto Gesù: una visione celeste che ha prodotto una trasfigurazione in lui.

È un’ipotesi verosimile dunque suggestiva perché ci permette di cogliere più a fondo la vita spirituale di Gesù. Talora si dimentica che anche Gesù ha avuto un suo itinerario spirituale, come il vangelo suggerisce: Gesù “cresceva in sapienza, età e grazia”. Senza dubbio non mancarono in lui le gioie per i frutti del suo ministero pastorale, come pure non furono assenti le ansie e le angosce (il Getsemani e la croce ne sono i momenti più drammatici. La salita sul monte ci fu anche per Gesù, come già per Abramo eppoi per Mosé, per Elia e per ogni credente Gesù sentì il bisogno di salire sul monte; era il bisogno di incontrarsi con il Padre. È vero che la comunione con il Padre era tutta la sua vita, il pane delle sue giornate, la sostanza della sua missione, il cuore di tutto ciò che era e che faceva; ma Gesù aveva bisogno di momenti in cui questo rapporto emergesse nella sua pienezza.

È un esempio che interroga profondamente i credenti di oggi. Se ne ha avuto bisogno Gesù, quanto più noi! Il Tabor fu uno di questi momenti singolarissimi di comunione, che il vangelo estende a tutta la vicenda storica del popolo di Israele, come testimonia la presenza di Mosé ed Elia che “discorre vano con lui”. Gesù, però, non visse da solo questa esperienza, volle coinvolgere anche i suoi tre amici più intimi. Fu un momento tra i più significativi per la vita personale di Gesù , e lo divenne anche per i discepoli e per tutti coloro che si lasciano coinvolgere in questa stessa salita. Nella tradizione della Chiesa molte sono state le interpretazioni di questo brano evangelico. Tra le più costanti c’è quella che scorge nella vita monastica il riflesso della trasfigurazione, a motivo della radicalità della scelta che comporta. E senza dubbio è necessario che nella vita della Chiesa di oggi si sottolinei con maggior coraggio la radicalità di questa scelta che mostra il primato assoluto di Dio sulla nostra vita.

Penso che si possa vedere nel monte della trasfigurazione anche la Liturgia domenicale alla quale tutti siamo chiamati a partecipare per vivere, uniti a Gesù, il momento più alto della comunione con Dio. Ed è proprio durante la santa liturgia che potremmo anche noi ripetere le stesse parole di Pietro: “Maestro, è bello per noi stare qui facciamo tre tende…”. Da questo santo monte ch’è la liturgia domenicale, nella quale ci troviamo in compagnia dei patriarchi e dei santi del Primo e del Nuovo Testamento, anche noi sentiamo risuonare la stessa voce ora: “Questi è il figlio mio prediletto, ascoltatelo”. Immediatamente i tre discepoli si ritrovarono con “Gesù solo”.

Si guardano attorno stupiti, forse con un senso di smarrimento per essere tornati alla “normalità” e non videro nessun altro se non il solo Gesù. Iniziano di qui i giorni feriali che seguono la domenica; o, se si vuole, la discesa dal monte. I discepoli non erano più come prima. Tornarono nella vita quotidiana non più ricchi di se stessi, delle proprie idee, dei propri progetti, dei propri sogni o di altro ancora. Essi avevano davanti agli occhi la visione di Gesù sfigurato, e questo gli bastava. Sì, alla comunità cristiana, ad ogni credente, non è dato altro che Gesù; solo Lui è il tesoro, la ricchezza, la ragione della vita personale e della vita della Chiesa. Quella tenda che Pietro voleva costruire con le sue mani, in realtà l’aveva costruita Dio stesso quando “il Verbo si fece carne e venne a porre la sua tenda in mezzo a noi” (Gv 1, 14). E con l’apostolo Paolo siamo lieti di poter ripetere che nessuno, né il dolore né la fatica né la morte, ci separeranno da Cristo e dal suo amore.

AUTORE: Vincenzo Paglia