È una voce che non urla, quella di fra Francesco Ielpo, ma che si fa sentire forte, come il vento che accarezza le pietre dei Luoghi Santi. In un tempo segnato da guerre, sfiducia e ferite profonde, la sua parola cerca di custodire qualcosa che sembra diventato raro: la speranza. Da giugno scorso è Custode di Terra Santa e Guardiano del Monte Sion, un incarico che porta sulle spalle con gratitudine e tremore. Di passaggio in Umbria, terra segnata dal carisma di san Francesco, ha risposto ad alcune domande per raccontare cosa significa oggi essere francescani in quelle terre dove Dio si è fatto uomo e dove l’uomo oggi spesso si fa guerra.
Padre Francesco, qual è oggi la situazione in Terra Santa?
«È complessa e drammatica. La Custodia non riguarda solo Israele e Palestina, ma anche Libano, Siria, Giordania, Cipro, Egitto… ed è un mosaico di sofferenze. A Gaza la guerra ha lasciato migliaia di vittime e distruzione, ma anche in Cisgiordania la vita è diventata quasi impossibile. La gente ha perso il lavoro, il turismo religioso è scomparso, le famiglie sono senza mezzi. E oltre alla miseria materiale, ciò che manca è la speranza. La gente non riesce più a immaginare un futuro buono. Noi francescani restiamo lì per questo: non solo per offrire pane o medicine, ma per testimoniare che una speranza è ancora possibile».
Cosa ha significato per voi l’interruzione dei pellegrinaggi?
«Un danno gravissimo, non solo economico. I pellegrinaggi sono fonte di sostentamento per tutti – cristiani, musulmani, ebrei – ma sono anche linfa per la comunità cristiana. I cristiani locali, accogliendo i pellegrini, sentivano di avere un ruolo, una missione. Adesso che le porte sono chiuse, ci si sente dimenticati, inutili. E questo è devastante. Non si tratta solo di custodire santuari, ma di tenerli vivi con la presenza di pietre vive: i battezzati. Un luogo è davvero santo solo se c’è una comunità viva che prega, serve, spera».
Cosa vuol dire oggi per un francescano “restare” in quei luoghi?
«Significa anche vivere senza gratificazioni. Penso alla nostra fraternità di Emmaus: da vent’anni è tagliata fuori da ogni flusso di pellegrinaggi, in un villaggio islamico dove resta una sola famiglia cristiana. Eppure i nostri frati continuano a esserci. Perché se noi lasciassimo quei luoghi, sarebbero persi per sempre. La nostra presenza dice che il tempo di Dio è diverso dal nostro, e che nulla è inutile se vissuto per amore. Anche il mondo islamico, spesso, riconosce il valore di questa presenza silenziosa. Lì dove restiamo, diventiamo segno».
Che rapporto c’è oggi tra francescani e le altre comunità cristiane?
«Un rapporto fatto di dialogo quotidiano e fiducia reciproca. Dopo la mia nomina, ho voluto andare subito in Siria, dove era appena stata attaccata una chiesa ortodossa. Al patriarcato ho incontrato il vicario, che mi ha raccontato di cristiani feriti in ospedale che dicevano: “Siamo mezzi morti, ma siamo pronti a dare di nuovo la vita per Cristo”. In un tempo segnato dall’odio, sapere che ci sono persone disposte ad amare ancora, senza rancore, è sconvolgente. È una speranza che spiazza e consola».
Si può davvero parlare di segno profetico?
«Non so se lo siamo, ma so che siamo chiamati a restare. Custodire non vuol dire solo conservare. Vuol dire vivere ogni giorno accanto a chi soffre, credere che un futuro è ancora possibile, anche quando tutto dice il contrario. E non siamo soli. C’è una fraternità grande, fatta di 325 frati da 40 nazioni, sparsi in 11 paesi. La sfida più grande è quella della fraternità tra noi. Se riusciamo a vivere insieme nella diversità, possiamo essere un segno credibile anche per gli altri».
Cosa significa, per lei, essere oggi Custode di Terra Santa?
«Lo scoprirò cammin facendo. È un servizio che spaventa, ma che affronto con fiducia, sapendo che anch’io ho bisogno di essere custodito: dal Signore e dalla fraternità. Questo incarico è una cesta piena di responsabilità: scuole, parrocchie, accoglienza, dialogo interreligioso, relazioni diplomatiche, studi, archeologia. Ma anche una cesta piena di volti, di vite che ci sono affidate. E ogni giorno che passa, vedo segni – piccoli ma veri – che dicono che non siamo soli, e che il Vangelo è ancora possibile, anche lì dove sembra impossibile».
Daniele Morini




