Tra Infinito e profondo Nulla

Iacopone da Todi: un'esperienza mistica di grandissima attualità

L’Amore esmesurato, l’Amore che firisce, l’Amore che annichilisce. È questa la tonalità su cui Iacopone da Todi (1230/36-1306) accorda l’esperienza d’assoluto che sette secoli fa declinava la sua esistenza, la sua opera poetica, la sua vicissitudine di mistico in Dio. Porsi di fronte al mistero dell’Assoluto, all’evento circoscritto ma senza tempo dell’Incarnazione-Passione, genera per Iacopone questo unico e possibile stato dell’anima e dei sensi. È un Amore carnale, vivido, fatto di nervi, pelle, che ruba le membra, ma che al contempo deborda dalle nostre limitate capacità di percezione umane e spirituali, lasciandosi così avvicinare unicamente da quello strumento fragilissimo ma di infinita gittata conoscitiva quale è la poesia. Nei momenti di grazia in cui questa contemplazione esperienziale è concessa, è acquistata, la poesia prorompe in quello iubelo de core, che cancella il mondo e unisce il mistico-poeta all’Amore divino. È una condizione privilegiata, ma che inesorabilmente crea un doppio iato tra il contemplativo e le sue capacità d’espressione prima, col resto del mondo poi. Nel primo caso la separazione si declina nella nota percezione iacoponica del sentimento dell’ineffabilità, del non poter dire. Il secondo iato che patisce il mistico-poeta è quello con il mondo. Un innamorato di Dio al cospetto dell’Amore incarnato, esmesurato, non può che apparire al mondo come folle di Dio. È uno status doloroso ma necessario, dazio inevitabile per chi vuole accedere al Sommo Bene. Allora il dramma è che appena al di sotto delle vette mistiche, dove tutto è quiete e luminosa contemplazione (seppur ammutolita, seppur fraintesa dal mondo), appena al disotto, lungo le stancanti vie delle ascese e delle discese alla ricerca di quell’unico Valore assoluto, il richiamo feriale dell’esmesuranza genera fatica, vuoto, dolore. È la dolorosa bellezza dell’anelito continuo di chi in Cristo incarnato-morto per noi ha intravisto per un attimo, uno spiraglio di quella Bellezza definitiva che mai più lascerà nella quiete. Ma ancora più in profondo, alle basse piane del nostro essere limitatamente umani, il mistero-dramma dell’incarnazione-passione, può generare il contatto l’altro grande piedistallo della poetica iacoponica: l’alta nichiltade. In Donna de paradiso il racconto della Passione termina in maniera dolorosamente non redenta. L’ultima plastica immagine è quella della donna-madre Maria che chiede di sprofondare nell’abisso della morte assieme al figlio. In Iacopone l’evento dell’Infinito nel finito non può che generare le domande urgenti dell’umano. Ma proprio a contatto con la radice estrema della nostra gravità umana, a contatto con la percezione dello spettro del nulla, dell’alta nichiltade, il poeta-mistico Iacopone genera una delle più formidabili risposte. L’andamento ondivago della poetica iacoponica sembra esitare perennemente tra i due poli dell’esmesuranza (Infinito) e dell’alta nichiltade (profondo nulla). Più semplicemente e in maniera moderna, Iacopone sembra non trovare mai l’equilibrio di un Francesco che riesce a coinvolgere nel suo canto di lode l’Infinito del creato, anche nella sua espressione più misteriosa che è sorella morte. Iacopone sembra a tratti quasi soccombere a questa trazione generata dai due estremi. Eppure è lampante come proprio questo nodo sia la fonte sorgiva del nucleo della sua poesia. L’intuizione poetica va oltre, ed ecco la grande novità filosofica spirituale estetica del grande umbro: solo e attraverso la porta stretta dell’alta nichiltade è possibile spalancare le porte dell’Infinito. (Alta nichiltade, tuo atto è tanto forte/ che opre tutte le porte, entr’Èllo ‘nfinito). Dunque sì tensione tra Infinito e finito, ma con l’intuizione finale che pur nel dolore, nell’apparente vuoto di senso, nello scandalo di un Dio fatto bimbo fragile, nel venerdì santo di Maria, lo stallo è solo contingente, l’intuizione di un superamento del nulla è gia in nuce, l’attesa di una risposta piena è avvertita.

AUTORE: Roberto Contu