Parlando di povertà, per capirla a fondo, le parole che contano sono molte, ma nel nostro mondo la parola/chiave è una sola: emarginazione. In tema di disabilità e di handicap il vero problema è l’emarginazione. È così – anche se in termini diversi – quando si parla di anziani, o di minori a rischio, o di tossicodipendenti. Disabile o handicappato? Sembrano sinonimi. Ma non lo sono. Non è lana caprina. “Disabile” è un soggetto che, a causa di una qualche malattia, non è in grado di “agire” una qualche parte del proprio corpo. Handicappato invece (così recita l’Organizzazione Mondiale della Sanità) è “un disabile che, a causa di una qualche menomazione… rischia di essere emarginato socialmente, o che comunque dalla sua disabilità viene impedito di godere della stessa qualità di vita e della stessa dignità di ogni essere umano”. L’handicap è dunque una forma di forte disagio sociale dovuta alla reazione che la società adotta di fronte ad un disabile. La disabilità è natura, l’handicap è cultura: non ha l’uso delle gambe, è fuori giuoco. Emarginato: participio passato di un verbo attivo transitivo, ha valore passivo; lui subisce l’azione; e se lui la subisce, è perché qualcun altro la fa. In un mondo che dovrebbe vedere tutti al centro, qualcuno viene tenuto ai margini. Magari dandogli l’impressione di contare ancora qualcosa. Agghiacciante, in proposito, l’origine della parola “handicap”; negli ippodromi inglesi del sec. XVIII la partenza ad handicap veniva adottata quando in gara c’era un cavallo “brocco” destinato al macello perché ormai troppo evidentemente inferiore agli altri: lo si faceva partire qualche decina o qualche centinaio di metri più avanti degli altri. Gli si dava l’impressione di essere in gara. Un paio di giri di pista, il tempo necessario ai cavalli normali per sorpassarlo. Giù, in fondo, appartato, il macello equino. Buona notte. L’ingiustizia è raffinata quando riesce a dare l’impressione della giustizia, magari dell’unica possibile. No, non è lana caprina.