Da tempo gli esperti sostengono che la società digitale abbia portato una novità, soprattutto tra i giovani: l’estraniazione della fisicità, l’enfatizzazione delle relazioni non agite, la facilità dell’isolamento. Ora siamo davvero isolati e per di più chiusi in casa, alcuni più pazienti, altri spazientiti.
Sembra – e dico sembra, perché i tanti studi matematici che si stanno avvicendando dovranno poi essere comparati e valutati – che il Covid-19 sia più aggressivo che in Cina e che le misure di sicurezza debbano essere rispettate al dettaglio se vogliamo che lo scenario cambi intorno alla metà di aprile. Serve molto equilibrio tra razionalità ed emotività, tra saper obbedire e saper dubitare. Nessuno ha davvero contezza completa di quanto sta accadendo e di come cambierà la storia.
Dibattito nella Chiesa
Poi ci siamo noi cristiani. Che non possiamo partecipare alle celebrazioni e comunicarci.
C’è chi dice che non era mai accaduto prima (opinabile, si pensi al braccio di ferro tra istituzioni e chiesa ai tempi della peste nera come ricordavano anche Galileo e poi Manzoni), c’è chi dice che il governo non ha diritto a fare questo (opinabile, si ricordi il Patto internazionale sui diritti civili e politici che permette al governo di intervenire in materia religiosa in situazioni di emergenza sanitaria), c’è chi dice che la Chiesa doveva essere più chiara nel distinguere tra sospensione e dispensa delle funzioni religiose fornendo subito chiavi di lettura propositive (meno opinabile?, ma molto si sta facendo in questi giorni).
Il problema
Il problema di fondo è duplice ed è serio: dapprima la fatica, inimmaginabile per un non credente, di fare a meno del corpo di Cristo per tanto tempo; in secondo luogo, la fatica comprensibile a tutti di esonerarsi dal contatto con gli altri.
Da qui la domanda: per quanto e in che misura? Quanti giorni? Quanto spazio tra una persona e l’altra?
Spunti dalla Parola di Dio e dagli antichi greci
Nelle letture di questi giorni la ricchezza della Parola di Dio è però così abbondante che se si partisse da lì troveremmo forse più pace. Abbiamo trovato due riferimenti alla “misura”.
Nel vangelo del 9 marzo: “Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio” (Lc 6,38).
Nell’Ufficio delle letture del 10 marzo descrivendo la manna che gli Israeliti ricevettero nel deserto: “Ecco che cosa comanda il Signore: Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne, un omer a testa, secondo il numero delle persone con voi. Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tenda”. (Esodo 16,16).
Sono due approcci diversi al concetto di misura. Misurare per gli antichi Greci aveva due significati. Da una parte, la misura era costruzione di un rapporto, un approccio “archimedeo”: non ogni unità va bene per tutte le grandezze, ma in base a ciò che si misura occorre una appropriata unità. Si può misurare un tavolo con una spanna, ma con una spanna non si può misurare la punta di un chiodo. Dall’altra parte, misurare era prendere un’unità, “assoluta”, e moltiplicarla: un approccio “platonico” al numero, pensato come entità ideale ripetendo la quale si ottenevano altri numeri (dall’1 al 2, e così via, col problematico passaggio dall’unità alla molteplicità su cui i filosofi poi si sono arrovellati).
La “misura pigiata” di Gesù
Andiamo a quanto dice Gesù: “pigiate” la vostra misura. Evidentemente, una misura “archimedea”, che va adattata per poterci contare il più possibile. Generosità significa “pigiare” la nostra misura, non essere dozzinali, giocar di fino, saper rendere tutto misurabile e contenibile. Più la misura è pigiata e stretta, più è moltiplicabile. È il farsi piccoli che santa Teresina di Lisieux suggeriva. Come il sacrificio interiore che viene chiesto in questi giorni: offrire la rinuncia al pane eucaristico affinché si moltiplichi a dismisura il desiderio di Gesù e si tramuti ora in servizio e passione per la nostra comunità, che sta vivendo una difficoltà collettiva.
Prendiamo l’istruzione che il Signore dà agli Israeliti: un omer a testa, detto anche “covone”, a indicare il volume di manna destinata a ogni persona (poco più di 3,5 litri, cf. Es 16, 35-36) e da cui prende il nome anche un’antica benedizione ebraica. Una misura precisa e ripetibile. A ciascuno la sua.
Come l’impegno personale, sopra ricordato, che viene chiesto oggi ad ognuno di noi: isolarci e cambiare le regole quotidiane per evitare che i disagi di adesso si prolunghino oltre aprile e che i gravi danni socioeconomici siano recuperabili, pensando agli altri prima che a noi.
Flavia Marcacci