Dietro la droga leggiamo la vita

Assente, per motivi gravi, dalla Conferenza nazionale sulle tossicodipendenze, tenutasi a Genova nei giorni 28-30 novembre, ho incaricato di rappresentarvi ufficialmente la Comunità Incontro, il mio addetto stampa e, soprattutto, il sen. Ferdinando Imposimato, nostro delegato alle Nazioni Unite, di cui facciamo parte come Organizzazione non governativa. Sicuramente, le affermazioni del ministro Veronesi, che hanno caratterizzato, ingiustamente ma significativamente, la Conferenza, non sono state rispettose né di quanti hanno lavorato in tutti questi anni sul campo, né della linea del Parlamento e del Governo. Tant’è vero che il primo ministro, l’on. Giuliano Amato, ha deciso di disertare le conclusioni a lui affidate dal programma, lasciando a bocca amara la ministra Turco che, arrampicandosi sugli specchi, cercava di difendere comunque le parole del Ministro della Sanità, almeno come uomo di scienza. Ma Veronesi non è stato nemmeno tale, perché ha messo sullo stesso piano il rapporto dei giovani con l’alcool (85.6%) e con il tabacco (70%), contro cui egli stesso si sta battendo in Parlamento, con un loro primo approccio ai canabinoidi (33.3%), definendo indistintamente questi tre comportamenti come elementi acquisiti del costume sociale giovanile. Non solo, ma ha usato categorie del tutto fuori dalla scienza, dividendo le sostanze in droghe “pesanti” e “leggere”, e definendo come leggero l’uso dell’extasy in discoteca, che – a suo dire – tutti dovrebbero preferire all’eroina per strada. In questo modo egli è venuto meno anche al senso di responsabilità che qualsiasi adulto dovrebbe avere nei confronti dei giovani, perché ha alimentato in costoro l’idea che ci sia una grande confusione anche tra chi ha un ruolo pubblico, e che gli avvisi, gli allarmi, le campagne dissuasive siano soltanto espressione di opinabili mentalità allarmistiche e proibizionistiche. Con la sua affermazione sul fallimento del “proibizionismo” – brutto termine per indicare quanti ritengono che compito delle istituzioni sia anche quello di porre limiti e freni ai comportamenti individuali nocivi alla persona e alla collettività – lo ha, di fatto confuso con la “repressione” che, al contrario, tutti auspicano nei confronti del narcotraffico. In questo modo egli ha anche contribuito ad alimentare quei focolai di intolleranza (segue a pag.7) che sono poi sfociati in aggressione, alla lettura di un documento propositivo, proveniente da numerose comunità di recupero. E ciò, soltanto perché queste ultime non si piegano al qualunquismo pseudo-libertario che, di fatto, si sta traducendo, sotto i nostri occhi, in uno spaventoso aumento dei consumi di sostanze di ogni genere, legali o illegali, impropriamente acquisite o “scientificamente” prescritte dal medico e dallo psichiatra. Ma se il Ministro usa l’argomento dei circa 1.000 morti l’anno per droga, per dichiarare fallito ciò che viene definito “proibizionismo”, cosa si dovrebbe dedurre dai 30.000 morti per alcool o dagli 80.000 morti per tabacco, sostanze entrambe di uso libero e legale? Secondo logica, allora, si dovrebbe annullare tutta la nostra legislazione e lo stesso codice, civile e penale. Non sembra, infatti, che con tutte queste leggi sia diminuito il popolo dei ladri, né quello degli assassini, dei pedofili, ecc. Tutt’altro! Purtroppo, stiamo assistendo ad un grave errore di metodo: continuiamo a discutere sulle sostanze e sul modo migliore di contrastarle, vuoi sul mercato come nell’organismo umano, invece di occuparci dei nostri giovani, del vuoto culturale e di valori, della mancanza di punti di riferimento, e di una autorevolezza del mondo adulto e delle istituzioni, che vediamo sempre più incrinata e calpestata (e, sicuramente, fatti come questo contribuiscono non poco a tale escalation!). Mentre troviamo più laico e pragmatico (due aggettivi generici, ma oggi tanto di moda) considerare il tossicodipendente come un malato da curare con farmaci, terapie, mantenimenti, contendimenti, ecc. piuttosto che un criminale da carcerare e da punire; non volendo prendere atto che egli non è né l’una né l’altra cosa. Il tossicodipendente è, in realtà, una persona che, soffrendo o essendo povera di interiorità e di affettività (una malattia interiore, dello spirito, dunque), si trova invischiata in un moderno mercato di morte da cui non riesce ad uscire. Anche perché sulla propria strada, dopo “essere incappato nei ladroni”, incontra più facilmente gente che denuncia e discute, piuttosto che qualcuno che si fermi e si prenda carico di lui, fortemente volendo la sua guarigione. Certo, anche gli interventi di Genova erano conditi di buoni inviti all’amore! Ma non si può parlare di amore quando si tratta la persona come un caso clinico, quando si accetta la sua cronicità o irrecuperabilità, quando ci si limita ad assisterla ma si evita di affrontare il nodo centrale di metterne in discussione gli stili di vita, attraverso un rapporto educativo che coinvolga le due vite in un cammino comune. Proprio ciò che avviene nella famiglia e nella comunità che – come ha detto il Papa ai giovani della Comunità Incontro in Giubileo a piazza San Pietro – offre “a chi è finito nel vicolo cieco della droga la possibilità di ritrovare il sentiero della speranza. Con luoghi di fraternità, dove ad ognuno viene offerta una ulteriore possibilità per non sciupare il bene prezioso della vita”. E infatti – prosegue il Papa – “la vera alternativa alle tante sostanze che stordiscono la persona umana voi l’avete ritrovata all’interno di una comunità che, più che proporre soluzioni tecniche, offre un itinerario di rinascita umana e spirituale”. Credo, pertanto, che la colpa più grave nella nostra società, verso i giovani, e non solo verso quelli che assumono droghe, sia l’incapacità, la paura, o l’ignavia, di proporci come padri, e cioè come donatori e convinti propositori di vita; per cui ci si limita ad un buonismo che vede da una parte solo criminali da condannare e dall’altra solo dei soggetti inermi, vittime irresponsabili del crimine che sfrutta i loro bisogni e della società che conculca i loro diritti. Ma, se è vero che la vita appartiene a Dio, è anche vero che Egli ha dato ad ogni uomo di viverla come dono unico e irripetibile, e a ciascuno di noi, fatto adulto, di diventare Suo responsabile collaboratore nel generarla, proteggerla e orientarla – attraverso il faticoso percorso della realtà quotidiana – verso mete e ideali degni della persona umana. E questo significa educare. Pertanto credo che, se proprio si vuole vedere una contrapposizione, questa non sia tra proibizionisti e antiproibizionisti, ma tra educatori e buonisti; tra personalisti e qualunquisti; tra chi vede ogni singola vita degna di un progetto, e chi considera la vita umana frutto del caso e in balia dei processi di selezione naturale.

AUTORE: Pierino Gelmini