E il giudice chiese scusa

Il più doloroso buco nell’acqua, una tantum, non fui io a carotarlo: lo fece qualcun altro, ma il suo peso a volte umiliante lo portammo io e i miei.

Parlo di un processo che mi intentarono alcuni amici, tiepidi fino all’altroieri nel sostenere i progetti della mia Comunità, bollenti da ieri, ma contro i progetti della mia Comunità.

Non so se l’ho raccontato al flebile chiarore di un’abat jour ormai lontana nel tempo, ma se l’ho raccontato il lettore se l’è certo dimenticato: questa che viviamo è un’epoca che impone ben altre cose da ricordare. Era la primavera del 2000 quando, nel Consiglio comunale di Gubbio, si levò la voce di Pascolini, leader di quella destra che lì non è mai riuscita a fare, tutta intera, “na muta de omi pel Cero”.

Chiedeva, quel Pascolini che oggi è tornato pienamente mio amico, di andare a sfrugugliare un po’ nei conti della Comunità di Capodarco dell’Umbria, visto che percepisce delle rette di degenza dallo Stato, e in giro si vociferava che qualcosa non andasse, qualcosa di pesante, e che la Comunità dovesse renderne conto alla magistratura.

“Si vociferava” è un eufemismo. In realtà era già in atto una campagna robusta e ben articolata, con a capo (non ho mai capito perché) un Organo dello Stato che aveva già messo per iscritto l’obiettivo centrale: distruggere la comunità. Sì, proprio così. Quello scritto autentico oggi è sepolto sotto il cumulo di carte della mia scrivania, all’angolo, tra le cianfrusaglie. Ma posso giurarlo su Dio e su quanto ho di più caro al mondo: un Organo dello Stato era deciso a distruggere la Comunità.

Un punto per accusarci c’era: avevamo vinto un bando del ministero del Lavoro, una certa cifra per stampare e distribuire a tutti gli eugubini tra i 20 e i 25 anni un volumetto di informazioni sulle possibilità di lavoro, presenti e future. E una faccia d’angelo con la lingua biforcuta e il piede caprino disse che stampati, sì, erano stati stampati, ma non erano stati distribuiti.

Dimostrammo che non era vero. Ma nel frattempo ci fu chi radiografò, su mandato del Tribunale di Perugia, i conti della comunità, ci spidocchiò, e noi ci lasciammo spidocchiare, come un’attempata signora che dal parrucchiere ci va ogni due anni. Per noi lo spiodocchiamento durò dal 2000 al 2007.

Il 3 aprile 2007 eravamo nell’aula penale del Tribunale di Perugia. Prese la parola un signore, che poi seppi essere il pubblico ministero. Disse: “Don Angelo e i suoi dappertutto dovrebbero essere, tranne che in quest’aula. A nome mio, del mio collega e di tutto il nostro ufficio chiedo scusa…”. Non capii le ultime parole. Inebetito, mi rivolsi al cancelliere: “E adesso… che facciamo?”. Un sorriso, tra amichevole e pietoso: “Ma… un buon ristorante lo conoscete, sì o no?”.

 

AUTORE: Angelo Maria Fanucci