di Paolo Giulietti
“Non bisognava che il Cristo soffrisse per entrare nella sua gloria?”. Le parole con cui il Risorto introduce la sua “catechesi biblica itinerante” ai due discepoli che stanno tornando delusi al loro villaggio di Emmaus (Lc 24, 23-35) condensano il significato delle celebrazioni pasquali. La liturgia e la pietà popolare manifestano, in modo pressoché complementare, come la tragica fine di Gesù sulla croce, abbandonato da tutti – sembrerebbe persino da Dio! – e lo splendore della sua vita nuova di Risorto siano le inseparabili facce di una medesima medaglia. È proprio il Crocifisso a rifulgere di gloria, mentre sul suo corpo glorioso continuano ad essere visibili le ferite della crocifissione.
Nessun dolorismo, dunque, nei riti del venerdì santo, poiché la croce del Signore è anche la sua gloria, il momento in cui la libera decisione di donare se stesso non viene travolta né dall’odio dei nemici né dalla viltà degli amici. Le icone del primo millennio e quelle della tradizione orientale fanno danzare il Cristo sulla croce, sulle parole del salmo 22, che nella seconda parte diviene, da invocazione di un uomo sofferente, cantico di lode per la salvezza ottenuta.
Nessun trionfalismo, inoltre, nei segni e nelle parole della grande veglia pasquale e della domenica di risurrezione, perché non si dimentica che a prezzo di sangue Dio ha riscattato i suoi figli e che la sua vittoria non si tinge del rosso della vendetta, ma del bianco della misericor- dia, disponibile con abbondanza per tutti, anche per quelli che lo hanno trafitto, perché davvero tutti ne hanno bisogno.
Il binomio sofferenza-gloria pare essere, ai nostri giorni, poco apprezzato: a ben vedere, la ricerca del risultato senza fatica o la mancanza di prospettive dinanzi al limite sono la cifra che accomuna diversi fenomeni della società contemporanea, rendendola, tra l’altro, estremamente fragile. Basti pensare all’inconsistenza di tanti legami affettivi o all’emergenza educativa.
È andata diversamente, qualche giorno fa, in Francia: il tenente colonnello Arnaude Beltrame si è offerto volontariamente al posto di un ostaggio nel supermercato di Trèbes, perdendo poi la vita per le mani del terrorista dell’Isis che aveva persuaso ad accettare lo scambio. Arnaude era un cristiano convinto; convertito a 33 anni, aveva ricevuto prima comunione e cresima dopo due anni di catecumenato. Si era fidanzato con Marielle sei anni dopo; l’aveva sposata civilmente dopo aver celebrato la promessa di matrimonio nell’abbazia di Timadeuc, in attesa di celebrare le nozze in chiesa (sarebbe accaduto il prossimo 9 giugno). Di lui ha detto un amico prete, padre Jean Baptiste Golfier, canonico regolare nell’abbazia di Lagrasse: “Mi sembra che solamente la sua fede può spiegare la follia di questo sacrificio che oggi suscita l’ammirazione di tutti. Sapeva, come ci ha detto Gesù, che non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici. Sapeva che, se la sua vita apparteneva a Marielle, apparteneva anche a Dio, alla Francia, ai suoi fratelli in pericolo di morte. Credo che solo una fede cristiana animata dalla carità poteva chiedergli questo sacrificio”. Nessun fanatico desiderio di morte, nessun gesto di spavalderia. Ancora una volta croce e gloria. La forza della Pasqua.