Sono stato invitato dal mio confratello eugubino al celebrare la festa del patrono di Gubbio, il “beato Ubaldo”, vescovo e pater patriae. Uno dei santi più emblematici della nostra cara terra umbra, conosciuto ormai in tutto il mondo. La sua vicenda mi ha condotto ad una riflessione sull’essere vescovo. La vita di Ubaldo divenne un tutt’uno con la vita della città. Egli fu elevato a simbolo e a difensore della patria. Sotto la sua protezione si rifugiarono gli eugubini in ogni calamità. Nella vita del beato Ubaldo la missione sacerdotale si intreccia con quella di guida e difensore del popolo. Questa è una costante nella storia della Chiesa. Fin dai primi secoli, con la crisi dell’Impero romano, i vescovi dovettero farsi carico anche della necessità materiali del popolo. Essi assunsero l’autorità di difensori dei poveri e dei diseredati, proteggendoli dalle angherie dei prepotenti di turno.
La figura del vescovo “padre e guida della comunità” si è protratta lungo i secoli fino ad arrivare ai nostri giorni. Il vescovo, come vero padre, sente il dovere di dare la vita per salvare quella dei figli. Come un padre, avverte la responsabilità di dover guidare i suoi figli sulle vie del bene, sulle vie del Vangelo, come ci diceva in questi giorni l’evangelista Giovanni proponendoci la figura di Gesù Buon Pastore. Grande è la gioia del Pastore quando percepisce di essere corrisposto dal suo popolo, così come avverte profondo dolore quando si sente abbandonato. Vescovo e popolo devono avere un cuor solo e un’anima sola, come tra padre e figli.
Quando questo avviene, la comunità cresce e si radica nella fede e nella carità, come bene esprime il Concilio: “Nell’esercizio del loro ufficio di padri e di pastori, i vescovi si comportino in mezzo ai loro fedeli come coloro che servono, come buoni pastori che conoscono le loro pecorelle e sono da esse conosciuti, come veri padri che eccellono per il loro spirito di carità e di zelo verso tutti e la cui autorità ricevuta da Dio incontra un’adesione unanime e riconoscente. Raccolgano intorno a sé l’intera famiglia del loro gregge e diano ad essa una tale formazione che tutti, consapevoli dei loro doveri, vivano ed operino in comunione di carità” (CD, n. 16).
Al suo tempo, il Signore scelse Ubaldo, e, come dice il libro del Siracide: “Gli diede autorità sul suo popolo. Lo santificò nella fedeltà e nella mitezza; lo scelse fra tutti gli uomini” per essere strumento di riconciliazione. Ancor oggi noi vescovi, con la grazia che il Signore ci concede, abbiamo il dovere di “esporre la dottrina cristiana in modo consono alle necessità del tempo in cui viviamo: in un modo, cioè, che risponda alle difficoltà ed ai problemi dai quali sono assillati ed angustiati gli uomini d’oggi” (CD). Ed il nostro tempo non è avaro nel proporci tanti problemi che devono essere non solo affrontati ma, per quanto possibile, risolti. Accenno ad alcuni che riguardano la nostra regione: la disoccupazione, sopratutto giovanile, molto alta; la diffusione della droga (ancora di recente hanno trovato un giovane morto in un campo per overdose); la situazione talvolta angosciante delle famiglie che si dividono, soprattutto quando ci sono bambini. Ma con particolare attenzione dobbiamo guardare ai più poveri e ai più deboli, quelli che il Concilio chiama “ultimi”, memori che a questi siamo stati mandati dal Signore per annunziare il Vangelo di salvezza. Perché così è piaciuto a Dio Padre, “che ha tenuto nascoste queste ai sapienti e ai dotti, ma ha voluto rivelarle ai piccoli”.