di Daris Giancarlini
Erano pensionati, ma anche professionisti o neo-laureati.
Erano uomini e donne, coppie sposate o persone singole che, per le ragioni più diverse, avevano scelto di stare dalla parte di chi, più che di vivere, ha il problema di sopravvivere. Sono il gruppo di italiani morti nel disastro aereo in Etiopia; si chiamavano Maria, Virginia, Rosemary, Paolo, Carlo, Gabriella e Matteo.
Tutti volontari di organizzazioni umanitarie. Con loro è morto un ottavo italiano, Sebastiano Tusa, che in quei Paesi andava, da archeologo di chiara fama qual era, per recuperare antichi tesori d’arte.
Purtroppo, abbiamo dovuto aspettare che non ci fossero più, per conoscerne le storie e l’impegno, per apprezzarne l’attitudine esemplare a trovare una realizzazione personale spendendo la loro esistenza per chi è meno fortunato. Si parla tanto di un’Italia incattivita, rancorosa, soffocata da un egoismo e un individualismo senza speranza.
Una fotografia poco realistica, se si leggono le storie personali di questi nostri connazionali; i quali, a un certo punto della loro vita, hanno detto I care ,“mi interessa”, “me ne prendo cura”. Nella convinzione, probabilmente, che il mondo si rende migliore, come diceva Ghandi, se siamo noi per primi quel cambiamento che vorremmo vedere negli altri.