La gragnuola matrimoniale

Abatjour

Nel suo La diocesi di Gubbio mons. Bottaccioli, vescovo emerito, ha raccontato questa nostra Santa Chiesa di Dio. Un’opera formidabile. Non il frutto della fatica sistematica di un accademico in confidenza con la ricerca storica, ma una panoramica intelligente ed appassionata, centrata sulla propria, lunghissima esperienza di prete e di vescovo che, da questa angolazione, spazia lontano. È una gioia scorrerne le pagine. Io qui, ai due margini estremi del mio filiale rapporto con don Pietro, voglio ricordarne due tranches di vita. La prima. In due anni successivi, tra il 1956 e 1959, don Bottaccioli durante le vacanze estive convocò noi giovani seminaristi, per un ritiro di un paio di giorni. I temi di riflessione: “La santa volontà di Dio” e “Il Canone umile e santo”. Due temi che provocarono i due picchi di tutta la mia storia spirituale; avevo vent’anni, ma da allora sono andato sempre in discesa. Poi, “provvidenziale caso di strabismo collettivo”, la condivisione di vita con gli ultimi: uno tsunami di grazia. Il secondo ricordo. Comico. Giovane prete, fungevo da suo viceparroco occasionale a S. Martino. “Due di Petazzano vogliono sposarsi a S. Croce di domenica, alle 8 del mattino. Ci vai tu?”. vEra di gennaio e dalla gola del Bottaccione veniva giù una “giannetta” da gelare un uovo sodo. Alle 8 del mattino arrivarono gli sposi. In bicicletta. Da uomo. Lo sposo alla guida, prigioniero di un tight di atavica nobiltà decaduta. La sposa sulla canna, con un vestito che ai suoi bei dì era stato bianco, in testa una veletta prelevata da un quadro di Picasso, in faccia un trucco da carnevale dei ragazzi. Un mascherone da teatro settecentesco, due imbianchini lo realizzano in un giorno. La gragnuola dei confetti cominciò all’Introibo. Voltavo le spalle alla gente, e un confetto colpì il vetro di protezione del Crocifisso. Poi un altro confetto spezzò una candela. Un terzo mi beccò sul pizzo dell’orecchio destro, livido dal freddo: mi sembrò che si gonfiasse come quello di Gigi Baci. Mi voltai per dire… Nulla. Due facce spaurite! Gli angoli della bocca rivolti verso il basso. “Ma allora, tu che hai fatto?”, chiese don Pietro che fino a quel momento aveva seguito il mio racconto con frasi rimaste allo stadio di progetto. Che ho fatto? “Quando ho elevato l’Ostia santa verso il cielo… mi sono tenuto basso, sulla scorta di un pensiero solo in parte teologico: se mi centrano il Principale… eh!!”. E ho rimediato un confettone gigante proprio sulla tonsura.

AUTORE: a cura di Angelo Maria Fanucci