L’eterogenesi dei fini

Ho parlato di come la guerra maturò la personalità del compianto babbo Adamo: plaudiamo dunque alla Grande guerra? Neanche per l’anticamera del cervello! Perché, se è vero che la Grande guerra dilatò enormemente l’orizzonte mentale di tanti sbarbatelli che prima di allora vedevano meno di un palmo oltre il naso, e forgiò con forza e tenacia la loro personale moralità, è anche vero che pagò questi risultati a un prezzo altissimo: la morte di centinaia di migliaia di loro e il cronico squilibrio mentale di un’altra parte – tutt’altro che insignificante – di loro.

Un fenomeno intuito dal genio di Niccolò Machiavelli quando, in polemica con chi sosteneva che solo l’armonia dei suoi fattori primi poteva evitare alla società un’insostenibile conflittualità, affermò che proprio il grado di esasperazione della conflittualità sociale garantisce quel tasso di rinnovamento radicale del quale ogni società ha vitale bisogno per vivere in pace.

Un fenomeno teorizzato da Giambattista Vico: la storia umana – ha detto – contiene in sé potenzialmente la realizzazione di molte finalità, e la vita dell’uomo mira a raggiungere, tappa dopo tappa, l’una o l’altra di queste finalità, ma secondo un processo che non è mai lineare. E così, a volte ci si propone di raggiungere obiettivi alti e nobili, e la Storia genera mostri; a volte si parte con le peggiori intenzioni, e ne nasce il bene comune e la pace.

Conclusione spicciola: la Grande guerra rimane una grandissima boiata, anche se le durissime prove alle quali ha sottoposto i giovani fantaccini li hanno forgiati alla vita. Come il cumulo di sofferenze di una degenza ospedaliera di molti mesi: rimane un periodo che, da una parte, non si augura a nessuno, ma che, dall’altra, ha avuto effetti molto positivi in chi lo ha superato.

Il più negativo di tutti gli esiti della Grande guerra fu il marasma politico in cui gettò l’Europa l’ennesima trahison des clercs, l’ennesimo tradimento di quegli intellettuali smaniosi di legarsi mani e piedi al carro del vincitore. Dovevano mettere mano al disegno di uno Stato nuovo, capace di sostituire lo Stato liberale morente, e invece si lanciarono tutti o quasi nella gara strapaesana degli slogan contrapposti.

Avevano davanti un modello politico eccellente, quello di Giovanni Giolitti e della sua pervicace, intelligentissima azione per portare a responsabilità di governo e con sé i partiti politici della cui ispirazione non condivideva nulla, e come leader scelsero il figlio del fabbro di Dovia-Predappio, quel Benito che avrebbe dovuto emulare le gesta sociali dei Benito Juarez messicano, e che invece, finché si ritenne intelligente, ci addormentò tutti con la sua retorica; e quando pensò di essere un genio, ci precipitò tutti nella più grande catastrofe che il mondo abbia mai conosciuto.

AUTORE: Angelo Maria Fanucci