Lettera del Papa ai sacerdoti: per essere preti “in uscita”

Dolore, gratitudine, coraggio, lode: sono le quattro parole chiave della lettera che Papa Francesco ha scritto, il 4 agosto, ai sacerdoti, in occasione del 160° anniversario della morte del santo Curato d’Ars (4 agosto 1859), proposto da Pio XI come patrono di tutti i parroci del mondo. Il Pontefice si rivolge a ciascuno sacerdote che, in tante occasioni, “in maniera inosservata e sacrificata, nella stanchezza o nella fatica, nella malattia o nella desolazione”, assume “la missione come un servizio a Dio e al suo popolo” e, “pur con tutte le difficoltà del cammino”, scrive “le pagine più belle della vita sacerdotale”.

La prima parola è legata allo scandalo degli abusi: “Negli ultimi tempi abbiamo potuto sentire più chiaramente il grido, spesso silenzioso e costretto al silenzio, dei nostri fratelli, vittime di abusi di potere, di coscienza e sessuali da parte di ministri ordinati. Indubbiamente, è un tempo di sofferenza nella vita delle vittime che hanno subito diverse forme di abuso; anche per le loro famiglie e per tutto il popolo di Dio”.

Per il Santo Padre, “senza negare e misconoscere il danno causato da alcuni dei nostri fratelli, sarebbe ingiusto non riconoscere tanti sacerdoti che, in maniera costante e integra, offrono tutto ciò che sono e hanno per il bene degli altri e portano avanti una paternità spirituale che sa piangere con coloro che piangono; sono innumerevoli i sacerdoti che fanno della loro vita un’opera di misericordia in regioni o situazioni spesso inospitali, lontane o abbandonate anche a rischio della propria vita. Riconosco e vi ringrazio per il vostro coraggioso e costante esempio che, nei momenti di turbolenza, vergogna e dolore, ci mostra come voi continuate a mettervi in gioco con gioia per il Vangelo”.

La seconda parola è gratitudine: “Nei momenti di difficoltà, di fragilità, così come in quelli di debolezza e in cui emergono i nostri limiti, quando la peggiore di tutte le tentazioni è quella di restare a rimuginare la desolazione, spezzando lo sguardo, il giudizio e il cuore, in quei momenti è importante – persino oserei dire cruciale – non solo non perdere la memoria piena di gratitudine per il passaggio del Signore nella nostra vita, la memoria del suo sguardo misericordioso che ci ha invitato a metterci in gioco per Lui e per il suo Popolo, ma avere anche il coraggio di metterla in pratica”. Infatti, “la gratitudine è sempre un’’arma potente’.

Solo se siamo in grado di contemplare e ringraziare concretamente per tutti i gesti di amore, generosità, solidarietà e fiducia, così come di perdono, pazienza, sopportazione e compassione con cui siamo stati trattati, lasceremo che lo Spirito ci doni quell’aria fresca in grado di rinnovare (e non rattoppare) la nostra vita e missione”.

C’è poi il “coraggio”: “La missione a cui siamo stati chiamati non implica di essere immuni dalla sofferenza, dal dolore e persino dall’incomprensione; al contrario, ci chiede di affrontarli e assumerli per lasciare che il Signore li trasformi e ci configuri di più a Lui”.

Per Francesco, “un buon ‘test’ per sapere come si trova il nostro cuore di pastore è chiedersi come stiamo affrontando il dolore”: “Molte volte può capitare di comportarsi come il levita o il sacerdote della parabola che si voltano dall’altra parte e ignorano l’uomo che giace a terra. Altri si avvicinano male, intellettualizzano rifugiandosi in luoghi comuni: ‘la vita è così’, ‘non si può fare nulla’, dando spazio al fatalismo e allo scoraggiamento; oppure si avvicinano con uno sguardo di preferenze selettive generando così solo isolamento ed esclusione”.

Francesco cita “un altro atteggiamento sottile e pericoloso che, come amava dire Bernanos, è ‘il più prezioso degli elisir del demonio’ e il più dannoso per noi che vogliamo servire il Signore perché semina scoraggiamento, orfanezza e porta alla disperazione”: “Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da noi stessi, possiamo vivere la tentazione di aggrapparci ad una tristezza dolciastra, che i padri dell’Oriente chiamavano accidia”.

Il Papa propone il rimedio della preghiera, nella quale “sperimentiamo la nostra benedetta precarietà che ci ricorda il nostro essere dei discepoli bisognosi dell’aiuto del Signore”. Per mantenere il “cuore coraggioso” è “necessario non trascurare” due “legami costitutivi della nostra identità: il primo, con Gesù”, l’altro “con il vostro popolo”. “Non isolatevi dalla vostra gente e dai presbiteri o dalle comunità.

Ancora meno non rinchiudetevi in gruppi chiusi ed elitari. Questo, alla fine, soffoca e avvelena lo spirito”, avverte il Pontefice, che ricorda: “Un ministro coraggioso è un ministro sempre in uscita”.

“È impossibile parlare di gratitudine e incoraggiamento senza contemplare Maria. Lei, donna dal cuore trafitto ci insegna la lode capace di aprire lo sguardo al futuro e restituire speranza al presente. Tutta la sua vita è stata condensata nel suo canto di lode, che anche noi siamo invitati a cantare come promessa di pienezza”.

È l’ultima indicazione offerta dal Santo Padre. “Se qualche volta lo sguardo inizia a indurirsi, o sentiamo che la forza seducente dell’apatia o della desolazione vuole mettere radici e impadronirsi del cuore; se il gusto di sentirci parte viva e integra del Popolo di Dio comincia a infastidirci e ci sentiamo spinti verso un atteggiamento elitario… non avere paura di contemplare Maria e intonare il suo canto di lode”.

“Lasciamo che sia la gratitudine – l’esortazione finale di Francesco – a suscitare la lode e ci incoraggi ancora una volta alla missione di ungere i nostri fratelli nella speranza. Ad essere uomini che testimoniano con la loro vita la compassione e la misericordia che solo Gesù può donarci”.