I poveri ci mandano dei segnali

di fra Carlos Acàcio G. Ferreira

I poveri sfidano il nostro amore. Anzi, sono la radiografia della nostra capacità di accoglienza, di relazione, di servizio. Loro ci fanno vedere quanto sia gratuito e operoso il nostro amore. Ci smascherano i pregiudizi e le indisposizioni a metterci in gioco che portiamo dentro, tante volte nascosti e ben giustificati. Non è un problema sentirsi scomodato quando troviamo un povero, o meglio quando loro ci incontrano; peggio sarebbe non sentire niente, ossia l’indifferenza. Il fastidio, il turbamento interiore, la rabbia o sentimenti più nobili come la compassione e la misericordia che i poveri “strappano” dal nostro cuore quando ci raggiungono, direttamente o indirettamente, sono il segno che ci hanno toccato dentro. L’importante è non ignorare questi segnali, e fare il punto della situazione per capire come vada la qualità del nostro amore e del nostro spirito umano.

Ignorare i poveri e ciò che provocano in noi è ignorare il senso profondo della vita: noi esistiamo gli uni per gli altri, e non possiamo stare veramente bene se anche gli altri non lo stanno. La semplice presenza dei poveri, degli emarginati, degli esclusi, di persone sfruttate o abbandonate a sé stesse denuncia la nostra mancanza di fraternità, di giustizia, di attenzione, di umanità… E forse proprio per questo ci stanno scomodi, cioè perché ci fanno notare in modo chiaro che qualcosa non sta funzionando e che va cambiato. In questa prospettiva, rivolgere l’attenzione al mondo dei poveri, come vuole Papa Francesco con la Giornata mondiale dei poveri, è rimettere al centro la nostra capacità di “essere” umani e di “diventare” umani, di “essere” cristiani e di “diventare” cristiani. Senza autentiche e generose relazioni, soprattutto nei confronti di chi “adesso” non ci può donare nulla in contraccambio, la vita si tronca. Resta il tormento per non aver amato, per non aver vissuto fino in fondo, ma in superficie, occupandosi solo di se stessi. L’immediatismo e l’individualismo del nostro tempo ci richiudono in castelli isolati, senza la giusta attenzione al mondo dell’altro con il suo nome, cognome e bisogni. Per assurdo, il povero mendicante può stare molto più vicino di quanto immaginiamo, può stare dentro casa, perché potrebbe essere il figlio o la figlia “bramoso di sfamarsi” della presenza significativa (e non sbrigativa) dei suoi genitori. Oppure la moglie, il marito, la mamma, il papà, la nonna, il nonno… “bisognosi” dell’attenzione, del tempo, dell’ascolto, dell’affetto di chi gli sta “vicino”.

Papa Francesco con l’enciclica Laudato si’ e con l’indizione del Sinodo straordinario per l’Amazzonia, che verrà celebrato a ottobre 2019, ci ricorda con forza che più che mai dobbiamo ascoltare anche il grido della Terra, la nostra casa comune, insieme al grido dei poveri. Detta in questo modo, si potrebbe pensare che le cose da fare sono così tante e che non riusciremo mai a risolvere niente. E in mezzo all’infinità di cose da fare, ci cresce l’ansia o la rassegnazione. Ma questo sarebbe solo un altro dannoso effetto del nostro immediatismo. La parabola di Luca non parla di un milione di poveri e di mendicanti, ma di Lazzaro che “giaceva alla porta”. Iniziamo da qui. Qual è il Lazzaro che giace alla mia porta? Che cosa si aspetta da me? Che cosa rivela del mio modo di amare e di servire? Se ognuno si prende cura del suo Lazzaro, allora ci saranno meno affamati e bisognosi, e molta più generosità e accoglienza.

* Cappuccino, rettore del santuario della Spogliazione di Assisi