Quando una donna muore sul ring non c’è parità che tenga

‘è ormai noto, il ministro della Sanità Veronesi ha recentemente annullato il divieto alle donne di salire sul ring. La cosa ha mandato in sollucchero la collega Bellillo che ha scritto: “E’ una vittoria. Perché è sempre una vittoria di civiltà l’abbattimento di steccati”. (A proposito di steccati sarebbe interessante sapere che tipo di impegno mise a suo tempo la compagna Bellillo per abbattere quel lungo steccato – quello sì che lo era, e tragico! – che si chiamava “muro di Berlino”. La Bellillo ha però fatto un grosso autogol quando ha scritto che “se si sale sul ring facendo della buona boxe non si corrono molti rischi”. I rischi ci sono, ammette, ma non sarebbero poi così tanti. L’incredibile superficialità di un tal modo di parlare viene ora smentita dalla recente notizia – ecco l’autogol – che la pugile australiana Patricia Devellerez è andata in coma per un ko subito nel corso di un match contro una collega neozelandese. “Credo che dopo un tale choc al cervello nessuno vorrà più lasciarla combattere”, ha detto la madre di Patricia il cui marito, ex pugile, si è subito associato ai medici australiani che negli stessi giorni, in seguito alla morte di un pugile causata dai colpi sul ring, avevano chiesto la messa al bando del pugilato. Lasciando volentieri alla Bellillo le sue idee di progresso e di civiltà (che, è bene ricordarlo anche in questa vigilia elettorale, hanno portato la società ai luminosi traguardi della legalizzazione dell’aborto e del divorzio, e dalle quali proviene la spinta verso altre conquiste libertarie, come l’eutanasia e le libere convivenze anche omosessuali da equiparare alla famiglia fondata sul matrimonio) occupiamoci ancora una volta di questo pseudo sport chiamato boxe. Ne abbiamo già parlato su queste pagine il 16 marzo scorso. Merita tornarci, perché i problemi etici che esso pone sono notevoli. Abbiamo più volte scritto che il punto focale riguarda la natura stessa del pugilato, il fatto che in esso il fattore traumatico costituisce un elemento essenziale per conseguire la vittoria. Come infatti si sa, l’elemento più traumatico e spettacolare del pugilato è il ko, che provoca una vera commozione cerebrale con l’istantaneo passaggio del pugile “toccato” allo stato di incoscienza e di totale abbandono delle forze. Un colpo, dunque, mirato ad abbattere l’avversario. Un colpo, pertanto, moralmente inaccettabile. Chi sale sul ring, punta al ko. Ad un personaggio sportivo che sosteneva il contrario in un pubblico dibattito di parecchi anni fa, alcuni campioni presenti tra cui Duilio Loi e Gabelli replicarono dicendo: “Ma allora sul ring, che ci andiamo a fare?”. In ogni match i pugni dati e ricevuti sono centinaia. E’ stato calcolato che nell’incontro – o meglio, nello scontro – del pesi welter La Hoya-Quartey del 13 febbraio 1999 furono portati in totale 1159 colpi, 407 dei quali andati a segno. A segno dove? Molti certamente alla testa. E ogni pugno alle testa giunge inevitabilmente al cervello, che è uno degli organi più delicati e vitali. Certo, nessun maestro di boxe dirà esplicitamente ad un suo allievo: “Va’ e distruggi fisicamente il tuo avversario”. Ma al posto delle parole parlano i gesti, e questi – al di là di possibili esiti letali – producono quasi sempre fatti drammatici. Questi sono sostanzialmente i motivi sui quali si fonda la negativa valutazione morale della boxe professionistica. Non solo femminile, sia ben chiaro, ma anche maschile. La boxe professionistica, così com’è praticata e regolata, va a mio parere abolita. Se questo traguardo non fosse per ora raggiungibile, si cerchi almeno di renderla meno pericolosa introducendo, ad esempio, guantoni diversi, l’obbligo del casco protettivo, un numero inferiore di riprese, la proibizione dei colpi alla testa e regole che permettano all’arbitro di interrompere un incontro divenuto pericoloso. I dilettanti, che adottano questi accorgimenti, corrono infatti meno pericoli.

AUTORE: Vittorio Peri