Strage degli innocenti. Oggi come allora? La sfida del dialogo con l’islam

Cristiani perseguitati dall’Isis in fuga dall'Iraq
Cristiani perseguitati dall’Isis in fuga dall’Iraq

Succedono tante disgrazie e violenze nel mondo, ma ve ne sono alcune così atroci che lasciano ferite profonde nella coscienza collettiva. Mi riferisco a quanto successo in Pakistan: l’uccisione di trentadue bambini e ragazzi, a Peshawar, ad opera dei talebani di quel Paese. Lo sdegno e la condanna sono unanimi. In tempo di Natale la sensibilità per i bambini e i piccoli in generale è ancora più acuta e viene spontaneo riandare con la mente alla strage degli innocenti ordinata da Erode, re della Giudea (Matteo 2, 1-16). Ci domandiamo: da allora ad oggi siamo allo stesso punto? Le nostre riflessioni inclinano ad un senso di impotenza.

Gli uomini di buona volontà però non si arrendono al male e non possono lasciare soffocato nel silenzio “il grido del sangue innocente”.
Le voci che si sono levate finora sono deboli, incerte e timorose, mentre dovrebbero smuovere governi e autorità internazionali e quelle masse di persone che vanno in piazza solo per reclamare diritti propri.

Questi terroristi, volendo fare il male più grande e atroce, hanno scelto una scuola, hanno preso bambini e ragazzi e li hanno sacrificati, secondo un macabro rituale, sull’altare del loro cieco fanatismo: hanno recitato la formula che, secondo un loro errato calcolo, li assolve e li giustifica “Allah Akbar!” (Dio è grande), e ai bambini hanno fatto pronunciare la “shahada”, la formula breve del credo musulmano per garantire loro il paradiso.

In tal modo, con l’uccisione di creature innocenti, hanno decretato anche la morte di Dio, distruggendone la natura, l’immagine e il senso del suo stesso essere.

È il caso di dire con Nietzsche, “Dio è morto”, anzi “Noi l’abbiamo ucciso”. Ancora più propriamente potremmo aggiungere che il Dio dei talebani, come quello dei terroristi tagliatori di teste che lottano per un improbabile califfato, non esiste.

Questi terroristi sono condannati anche dai membri delle comunità musulmane e dai loro capi come dei criminali, con un distinguo: essi sono e rimangono musulmani, non possono essere dichiarati infedeli o atei. Tale affermazione, comunque si voglia interpretare, suona come una presa di coscienza secondo cui il marcio sta nel tessuto di quel popolo e di quella religione. Nello stesso tempo sembra voler dire che gli infedeli e gli atei rimangono per la loro stessa natura membri del “Dar al harb”, (la terra della guerra), mentre i terroristi, sono un’eccezione nel “Dar al Islam”, (la terra dell’Islam) che, secondo la loro convinzione, è terra di pace destinata ad abbracciare l’intera umanità.

Nel mondo musulmano in grande fermento si sta svolgendo, da parte di molti, una affannosa ricerca di una cultura dialogica, aperta al confronto. I cristiani accettano di porsi in dialogo e di farlo con apertura d’animo e coraggio, secondo quanto indicato dal Concilio Vaticano II nella dichiarazione sulle religioni non cristiane (Nostra aetate 1965)). L’errore capitale che può commettere l’Occidente di radice cristiana, Europa e America, sarebbe quello di diventare o apparire agli occhi dei musulmani come dei crociati. È facile e comodo per la mentalità musulmana identificare i cristiani come crociati, dimenticando san Francesco, lo spirito d’Assisi, e le dichiarazioni di rispetto e amicizia più volte espresse, e in modo molto solenne.

Oggi, a differenza del passato, dall’attacco alle Torri gemelle in poi, il dialogo diventa una necessità, un’urgenza planetaria da svolgere con franchezza, nella verità, nella pazienza dell’ascolto e nel coraggio della denuncia. Si tratta anche di andare a scrutare le radici velenose da cui trae origine la mala pianta della violenza. Un’indicazione generale ci viene anche da papa Francesco che nell’enciclica Evangelii gaudium ai nn. 252 e 253 specifica il modo di dialogare con i membri dell’Islam, facendo riferimento anche agli “ episodi di fondamentalismo violento che ci preoccupano”, che tuttavia non devono condurre alla generale condanna dell’immensa famiglia musulmana.

 

AUTORE: Elio Bromuri