Vera informazione invece di “spazzatura”

Mass media. Intervista al prof. Angelo Paoluzi in occasione della festa del patrono dei giornalisti, san Francesco di Sales

Qual è “il peccato di stato” di un giornalista? La maldicenza, che “equivale ad un omicidio”, perché è in grado di arrivare fino a “condannare senza appello” una persona sulla base di semplici insinuazioni. Ne è convinto Angelo Paoluzi, docente e coordinatore della Scuola di giornalismo della Lumsa. Lo abbiamo intervistato alla vigilia della festa di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, e della presentazione del messaggio del Papa per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Come definirebbe il linguaggio che utilizzano prevalentemente i media? “È chiaramente un linguaggio di carattere essenziale, che dovrebbe essere ridotto ai suoi elementi più semplici, per far sì che tutti siano in grado di capirlo. Molti giornalisti, invece, parlano in sindacalese, politichese, sportivese… tutti linguaggi tipici del settore in cui il singolo giornalista opera. Di per sé, il dato non è assolutamente negativo: ognuno di noi, all’interno dei vari media, cerca le cose che gli interessano. Il lettore del giornale non è in genere il lettore del giornale in toto, ma di alcuni settori di esso, ed il limite e il merito di un giornale è proprio quello di essere onnicomprensivo. Tenuto conto della varietà dei vari linguaggi, è però un dato sotto gli occhi di tutti che il comune modo espressivo si sta imbarbarendo: il giornalismo è oggi sempre più forzato, gridato, esasperato e conflittuale nei toni. Soprattutto è un giornalismo che si è involgarito, grazie all’introduzione di espressioni volgari, approssimative, tali da offendere anche la sensibilità del lettore, il quale però senza accorgersene si abitua. La volgarità, l’esasperazione dei toni, l’approssimazione si traducono in un mancato rispetto del lettore che, assuefacendosi a questo tipo di linguaggio, non si accorge che è lui stesso il primo ad essere danneggiato. San Francesco di Sales indica un altro stile comunicativo”. Quanto pesa lo strapotere della tv e dei nuovi media? “La televisione pesa moltissimo. Sono 25 anni ormai (da quando Murdoch, nel 1984-1985, decise di dare via libera al trash in tv) che stiamo peggiorando anche la qualità del linguaggio scritto, perché peggiora la qualità del linguaggio audiovisivo. La volgarità è come uno tsunami che ha travolto tutti, ma sono state scelte precise che hanno determinato tale evoluzione, o meglio involuzione. Anche quei giornalisti che hanno una migliore buona volontà, e che sono dotati di un’eleganza naturale, inevitabilmente finiscono con l’essere travolti, e il loro linguaggio ne risente”. È possibile, in questo contesto, recuperare uno stile giornalistico più “mite”? “È certamente possibile, perché esiste una responsabilità personale. Il giornalista non può trincerarsi dietro al fatto che ‘oggi il pubblico vuole così’… Il comunicatore deve essere sempre consapevole delle proprie responsabilità: non può cedere, deve resistere. Se si resiste in molti, può instaurarsi un circolo virtuoso per cui l’imitazione evolve in senso positivo. Esiste anche un contagio positivo, non soltanto un contagio negativo: l’obiettivo è quello di creare una spirale virtuosa di imitazione, per cui il giornalista che scrive in un certo modo venga considerato un modello da imitare. Se si riesce ad instaurare un rapporto con parole e fatti, fuggendo dagli stereotipi, forse la deriva della volgarità e dello stile gridato può essere superata”. C’è un “supplemento di responsabilità” per i giornalisti cattolici? “C’è, e a mio avviso consiste nel resistere fermamente alla tentazione del male dicere, della maldicenza, del pettegolezzo, della diffamazione, dello sberleffo, della cattiveria… Moltissimi giornalisti credono di fare il loro mestiere proprio utilizzando questi mezzi che io definirei satanici, perché introducono la cattiveria, l’invidia, la competizione, tutti quei difetti di cui parla san Paolo nella Lettera ai Romani. Creare ponti, come ci esorta a fare il Papa, significa invece mettersi sempre un passo indietro rispetto alle cose di cui si parla: informare, senza voler giudicare. Tutto ciò può accadere se il giornalista gioca tutta la sua attività nella completezza dell’informazione: i fatti sono di per sé espressivi, basta saperli raccontare senza forzarli, all’insegna del rispetto della persona. La capacità di autocritica, la disponibilità a farsi un esame di coscienza dovrebbero infine essere tipici di un giornalista cattolico, qualora esso lo sia non solo a parole”.

AUTORE: M. Michela Nicolais