Il porto fluviale di Pagliano “interessa” gli archeologi

Presentati i piani per i lavori di scavo: progetto e direzione a cura della Soprintendenza

Nel punto in cui il Tevere , a metà circa del suo corso, riceve le acque del Paglia … si determina una lingua di terra a forma di cuneo denominata “Pagliano”-: così esordisce il compianto prof. Cesare Morelli, nel suo diffuso studio apparso sul Bollettino dell’Isao, fascicolo unico -Anno XIII – 1957. E continua aggiungendo: “Siamo a circa sei km. da Orvieto. Su questa lingua di terra, assai fertile, anticamente era un centro abitato d’una certa importanza: è dubbio se fosse costruito dagli Etruschi; è certo che fiorì in epoca romana, come attestano i ruderi in opus reticolatum molto vistosi, nonostante che la incuria degli uomini e le intemperie e la vegetazione spontanea si siano alleate per cancellarne le tracce definitivamente”. Il nome presenta una chiara derivazione da quello del fiume Paglia, antico è quindi quanto il primo: la desinenza -anum è di larghissima accezione da quelle parti, che la si può trovare sia riferita a proprietà terriere romane come Tusculanum, Formianum, Puteolanum, sia a città Bovianum, Teanum, Martanum, o a vie, laghi, monti come Nomentana, Lacus Fundanus, Mons Albanus. L’analogia onomastica persiste con alcuni fundi circostanti locali quali Rosciano, Sismano, Alviano. Attigliano ecc. mentre non esiste assolutamente con Baschi, che latinamente doveva essere il locativo Vasclis o Vasculis. Il primo a porci l’occhio sembra che sia stato l’archeologo Riccardo Mancini di Orvieto, socio dell’Accademia orvietana “la Nuova Fenice” , nel 1889, quando la Banca Romana, proprietaria dell’ex feudo dei Montemarte di Corbara e quindi di quel terreno, promosse, per iniziativa del suo direttore Bernardo Tanlongo, a proprie spese, i lavori di scavo per un verso, al fine di esplorare quegli importanti avanzi del passato, e per l’altro, alla funzione di arginare con la terra rimossa le rive dei i due fiumi, che in quella confluenza dovevano procurare all’intorno non pochi danni. “Il Mancini, lo scopritore delle necropoli suburbane di Orvieto, ebbe così modo di indagare – dice il prof. Giuseppe M. Della Fina, nel suo “Orvieto Romana” – tra il 1889 e il 1890, un complesso architettonico che, nel rapporto preliminare sugli scavi – venne redatto un giornale di scavo di dodici puntate, di cui fu curata la pubblicazione nel bollettino Notizie degli Scavi di antichità dell’Accademia dei Lincei – interpretò come edificio termale. L’indagine venne ripresa negli anni Venti di questo secolo ed i risultati iniziarono a suscitare dei dubbi circa l’interpretazione fornita dal primo escavatore. Wenceslao Valentini, altro storico orvietano, parlò, nel 1925, per primo, di un porto: tesi accolta, almeno parzialmente, da U. Tarchi, che, nel 1936, accennò ad un “edificio portuale o termale”. L’ipotesi originaria venne accolta invece da G. Becatti (1934)”. Poi, nel 1957, venne il Morelli, di cui già abbiamo accennato, il quale si convinse vieppiù sulla identificazione di quelle strutture come proprie di un porto fluviale. Dagli scavi condotti in maniera “non esemplare- dice il prof. Della Fina – sono emersi delle indicazioni in merito all’inquadramento cronologico e alle merci che vi transitavano. Il porto sembra sia stato in attività dalla seconda metà del I sec. a.C. al IV sec. d.C. , anche se non è escluso che nuove ricerche possano consentire di spostare all’indietro – pure in modo considerevole – la data della sua entrata in funzione”. Ciò confermerebbe la simultaneità con l’apparire nella zona di ville di produzione. Che il porto fosse collegato con l’entroterra “sembra assicurato dalla presenza di ben sedici macine di mulino … e di anfore vinarie e olearie. Tutto ciò sembra indicare che i prodotti della terra costituivano la principale merce scambiata a Pagliano. … Sempre nel punto di incontro fra i due fiumi dovevano erigersi due sacelli: uno del dio Tevere e un altro a Venere Vincitrice”, documentati da statue e iscrizioni registrate nel Corpus Iscritionum Lat., X,4644, 7275″ . Ma un’aggiunta prodotta sempre dal Della Fina non può da noi essere minimamente disattesa: “Pagliano ha restituito inoltre la più antica testimonianza della presenza cristiana nel territorio orvietano, si tratta di una medaglietta databile, per il monogramma, nel IV sec. d.C. , forse già in età costantiniana. Dai dintorni del porto proviene pure l’iscrizione sepolcrale cristiana: Urse vivas in deo (Cil XI, 7386), incisa su di una tegola”. Notizia che riteniamo di grande importanza in primo luogo, perché scarsi sono i documenti di un primitivo cristianesimo in Orvieto e nell’immediato territorio, ed inoltre perché ci induce a rafforzare l’idea, non da tutti attesa e piuttosto trascurata anche negli studi più recenti, che Palianum vada considerato uno dei luoghi d’ingresso, una porta della fede cristiana, la quale abbia portato poi alla fondazione della Chiesa orvietana. Ci attendiamo ancora altre interessanti novità, per cui, di cuore, plaudiamo alla decisione unanime espressa dalle locali istituzioni di riaprire l’area archeologica di Pagliano. Infatti sono stati presentati già per iniziativa del Comune di Orvieto, della Soprintendenza per i Beni archeologici dell’Umbria e della Tenuta di Corsara i piani per i lavori di scavo e di sistemazione dell’omonimo porto fluviale, con progetto e direzione a cura e dipendenza della stessa Soprintendenza che prevede la valorizzazione della intera zona sia dal punto di vista archeologico, strutturale, di ricerca e di studio ed anche turistico con l’installazione di pannelli didattici – didascalici ed altro utile conforto. Tutto, per il momento, a carico dello Stato, bilancio ordinario del ministero per i Beni e le attività culturali. Nell’atto d’intesa si chiede quindi che lo stesso Ministero renda disponibili i finanziamenti ordinari, onde sia possibile dare il via, quanto prima alla prevista campagna di scavi, alla quale è auspicabile il coinvolgimento di enti operanti sul territorio, dimostratosi già in situazioni analoghe decisamente determinante.

AUTORE: M.P.