La sofferenza di chi deve morire si affronta in équipe

Un covegno per far conoscere ai medici di base le cure palliative

E’ solo un palliativo! Già, quante volte l’abbiamo detto per indicare un rimedio che consideriamo praticamente inutile?Eppure, le cosiddette “cure palliative” di inutile non hanno proprio nulla anche se, è vero, non possono far guarire la persona malata, tanto più che questo tipo di cura è riservato ai malati terminali, a coloro dei quali resta solo da sapere il ‘quando’ moriranno e non il ‘se’. Ed oggi in Umbria ci sono almeno 570 malati terminali. In Italia ogni anno su 300.000 persone con malattie inguaribili in fase terminale 150.000 muoiono e di queste 100.000 hanno sintomi dolorosi non controllati. Numeri che resterebbero senz’anima se non fosse che tutti abbiamo almeno conosciuto qualcuno che direttamente o indirettamente ha vissuto il dramma dell’attesa della morte propria o di una persona cara ed il carico di sofferenza, fatica e impegno che un malato terminale porta in sé e nella sua famiglia. I dati sono stati presentati al convegno che si è svolto sabato 27 gennaio a Perugia. Promosso dal Centro di terapia del dolore del Policlinico di Perugia (in collaborazione con la Wyeth Lederle) era rivolto ai medici di base per informarli e coinvolgerli sulle possibilità di cura della medicina palliativa. Un convegno scientifico dove è prevalsa l’informazione medica, ma la tavola rotonda del pomeriggio mettendo a confronto le esperienze delle Unità di cure palliative ormai da diversi anni attive in Umbria, ha consentito di entrare nel cuore del problema, ovvero la sofferenza del malato e dei familiari, la cura del dolore non solo fisico, ma “totale” che colpisce il malato. Tornando ai dati, nella regione solo 120 malati terminali sono seguiti a casa da personale preparato, persone capaci di affrontare la domanda cruciale: “ma io sto morendo?”. Il dott. Lucentini dell’Unità di Cure Palliative di Assisi, ha posto sul tappeto il problema della formazione dei 500 medici e 1700 infermieri che serviranno con l’entrata a regime della legge approvata nel ’99 in cui oltre al potenziamento delle cure palliative è prevista anche la realizzazione di almeno un “hospice” per regione, ovvero un centro, non un ospedale, in cui i malati che non possono essere seguiti in famiglia vengono assistiti ed ospitati in stanze che possono essere personalizzate ed in cui la presenza di familiari o amici non è un problema. La regione dell’Umbria, ha detto Lucentini, ha presentato al Ministero il progetto di quattro “hospice” e la speranza è che almeno uno ne venga realizzato al più presto. Ma sulla formazione il problema è tutto aperto dato che in Italia, a differenza di altri paesi europei, non esiste una cattedra di cure palliative. “Intanto, comunque, ad Assisi si sta realizzando un programma di aggiornamento che consentirà di avere personale preparato entro l’anno 2001”. Anche per le cure palliative, però, si pone un problema di risorse economiche e di scelte di valore. La questione l’ha posta Lucentini invitando provocatoriamente a chiedersi se i miliardi spesi per comperare una Tac in più non potrebbero essere meglio spesi per migliorare la qualità della vita del morente, eliminando o riducendo tutti quei fastidi, più o meno dolorosi che accompagnano gli ultimi giorni di vita. Ha riportato l’attenzione sul “dolore totale” la dottoressa Regni, psichiatra che opera nel Servizio di assistenza oncologica domiciliare di Perugia. “Quando si va a casa di un paziente si affronta il dolore totale, si incontra anche quello della famiglia. Ma il dolore può essere un messaggio, un modo per comunicare l’angoscia di morte, di qualcosa che non si conosce ed allora dobbiamo prendere la sedia e sederci per ascoltare e rispondere al dolore non solo con i farmaci”. Il sostegno di psicologi e psichiatri è importante, ha ricordato Regni, anche verso gli operatori, dai medici ai volontari, perché esiste anche il “dolore dell”operatore” che stabilisce una relazione umana con i malati e che quindi subiscono il peso e, appunto, il dolore della morte. “Il sostegno è importante, ha concluso Regni, per prevenire il rischio diburnout. La dottoressa Settimi, medico di medicina generale, ha ribadito la necessità di una organizzazione sanitaria alle spalle che consenta ai medici di dare risposte rapide e reali ai pazienti. “Non si possono aspettare settimane per avere un letto ortopedico per un malto terminale” ha detto, facendo appello a politici ed amministratori per una efficace organizzazione del servizio pubblico.

AUTORE: MariaRita Valli