Alla Porta di Lampedusa

Immigrazione. Visita delle Caritas ai 'Cie' sull'isoletta divenuta un simbolo

Sbarcano a Lampedusa con lo stupore incredulo di essere ancora vivi, nonostante la barca sia stata affidata ad uno di loro che non sapeva usare nemmeno la bussola. Sbarcano ustionati o intirizziti, spaesati, sotto shock per almeno 24 ore, perché non riescono ancora a capire dove sono. Per moltissimi, soprattutto i maghrebini, in questo periodo definito ‘transitorio’, il Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Lampedusa è il termine ultimo. Sempre che i rispettivi consolati diano il via libera per i rimpatri. Perché, passati i 180 giorni, stabiliti come periodo massimo di ‘ospitalità’ coatta nei Cie, del loro futuro nessuno ancora sa. All’interno del Cie trovano un centinaio di operatori della cooperativa ‘Lampedusa accoglienza’, delle organizzazioni internazionali (Unhcr, Oim, Save the Children), e i medici e infermieri che fanno capo all’Istituto nazionale salute, migrazione e povertà di Aldo Morrone, il primario del San Gallicano che da anni lavora con gli immigrati. Nel 2008 sono transitate al Centro 32.600 persone, il picco più alto degli ultimi anni, con oltre 400 sbarchi. E l’inevitabile corrispettivo in tragedie, con 642 morti nel 2008 (556 nel 2007, 302 nel 2006), soprattutto a causa dell’inesperienza di chi è costretto ad improvvisarsi scafista pur di fare la traversata gratis o a prezzo ridotto. ‘L’annegamento è la prima causa di morte tra i migranti’, sottolinea Aldo Morrone, precisando come arrivino qui solo quelli più giovani (tra i 18 e i 35 anni) e sani, pagando cifre tra i 2.000 e i 3.000 dollari. ‘Ogni barcone dà ai trafficanti un profitto di circa un milione di dollari’, dice. Moltiplicati per gli sbarchi annuali, si stimano circa 350 milioni di dollari l’anno. Molti di più di quelli pattuiti nell’accordo tra Italia e Libia. ‘La situazione è talmente complessa che non è facile stroncarla. Nemmeno se Gheddafi volesse’, aggiunge, precisando che ‘quelli che arrivano dai Centri libici hanno spesso vissuto drammatici abusi, violenze e torture’. Per Morrone, che trascorre il suo tempo facendo la spola tra Roma e l’isola siciliana, ‘Lampedusa è un luogo fortemente simbolico: qui il Paese ha un appuntamento con il suo passato e con il suo futuro. Qui abbiamo toccato con mano cosa ci insegnano le persone impoverite, che non sono solo un oggetto di assistenza: sono persone che hanno cultura, dignità, voglia di riscatto e valori che l’Occidente ha perso. La grande lezione di Lampedusa è aver imparato il senso della nostra vita da chi non ha nulla’. Rimane impressa, visitando il Centro, la cattiva sorte dei 726 malcapitati nel periodo peggiore. ‘Sapevo che avrei passato al massimo una settimana al Centro di Lampedusa, invece sto qui da tre mesi’, racconta Mustafà, 35 anni, tunisino, carpentiere e idraulico. Ha venduto casa e beni mobili per racimolare i 2.500 euro per il viaggio, affidando moglie e due figli ad un cognato, per il sogno di trovare un lavoro in Italia. ‘Ho perso tutto e ho rischiato la vita per venire in Italia – dice – perché la Tunisia non rilascia visti, e da noi c’è molta disoccupazione e violenza. L’idea di dover tornare per me è catastrofica. Spero di essere liberato e poter lavorare almeno per un periodo in Italia, in modo da recuperare i soldi che ho speso. Non siamo criminali, l’unica cosa che ci manca sono i documenti. Qui ci trattano bene, ma quando sei privato della libertà è come una prigione’. Anche una delegazione Caritas con tre vescovi (mons. Giuseppe Merisi, di Lodi e presidente di Caritas italiana; mons. Francesco Montenegro, di Agrigento; mons. Paolo Romeo, di Palermo), insieme al direttore della Caritas, don Vittorio Nozza, e ad alcuni responsabili di Migrantes e della Caritas – tra cui Stella Cerasa della Caritas di Perugia – hanno visitato il 26 marzo due Centri di Lampedusa. L’iniziativa rientrava nell’ambito del Coordinamento immigrazione di Caritas italiana, che ha riunito dal 25 al 27 marzo oltre 70 rappresentanti di altrettante Caritas diocesane, su invito della diocesi di Agrigento. Hanno ascoltato la voce del parroco di Lampedusa don Stefano Nastasi e la testimonianza di accoglienza dei parrocchiani. Perfino la realtà dei pescatori, che hanno avuto un incontro con don Giacomo Martino, direttore dell’apostolato del mare ed aereo della Fondazione Migrantes. ‘Abbiamo constatato una grande attenzione da parte di tutti gli operatori – ha commentato mons. Giuseppe Merisi, presidente di Caritas italiana – ma rimane aperta la domanda se la legislazione e il sistema vigente siano in grado di coniugare accoglienza, rispetto dei diritti umani e legalità’. I Vescovi, insieme ai convegnisti, si sono riuniti in preghiera per le vittime del mare davanti alla Porta di Lampedusa – Porta d’Europa, il monumento dello scultore Mimmo Paladino in memoria dei migranti morti. Nel tramonto di Punta Maluk, il luogo più a sud d’Europa, si è fatto memoria delle oltre 13.344 vittime (dal 1988 ad oggi) dei ‘viaggi della speranza’. ‘Un posto come questo raschia il nostro cuore e le nostre sicurezze – ha detto mons. Francesco Montenegro -. E ci chiediamo come sia possibile che la storia drammatica di ieri sia ancora la storia di oggi’.

AUTORE: Patrizia Caiffa