Chi sono i due figli?

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Giulio Michelini XXVI Domenica del tempo ordinario - anno A

Ancora una volta nel lezionario di oggi manca la continuità col vangelo della domenica passata, e ancora una volta dobbiamo fare un salto per arrivare al capitolo 21 di Matteo. Qui ritroviamo due parabole, indirizzate alla leadership ebraica del tempo, quella che Gesù deve affrontare a Gerusalemme. Infatti Gesù è ormai trionfalmente entrato nella città, ha scacciato i venditori dal tempio, e ha già avuto modo di maledire il fico infruttuoso. Arrivano finalmente alcuni sommi sacerdoti ed anziani del popolo e mettono in discussione la sua autorità. A questo punto Matteo ci consegna il testo di oggi, facente parte del suo materiale proprio (non abbiamo cioè alcun confronto sinottico con Marco o con Luca), non senza averci trasmesso anche le parole di Gesù in risposta all’attacco degli anziani, centrate sulla figura del Battista, al quale i capi del popolo non hanno creduto.

La nostra parabola termina allo stesso modo (“È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto”; Mt 21,32), tanto che qualcuno ritiene, giustamente, che la parabola scaturisca dalla polemica di Gesù con i leader ebrei. Sono questi, non dimentichiamolo, i destinatari della formula retorica rabbinica usata da Gesù e che introduce la parabola: “Che ve ne pare?” (Mt 21,28). L’interpretazione della parabola è terreno delicato, tocca senza dubbio il nostro modo di concepire la storia della salvezza e, come spiega Manlio Simonetti (Matteo, La Bibbia commentata dai Padri, Città Nuova 2004) varia a seconda degli autori. Di chi sono segno, chi rappresentano i due figli di cui parla Gesù? Per alcuni padri della Chiesa il figlio che non vuole lavorare nella vigna è Israele; per altri, come ad esempio Ilario di Poitiers, rappresenterebbe invece solo una parte del popolo ebraico, segnatamente i farisei, o quelli che si lasciano influenzare da loro.

La prima interpretazione a mio avviso è inesatta, e tra l’altro può facilmente veicolare quella teologia detta “della sostituzione” (meglio nota nell’ambiente anglosassone come supersessionism). Secondo questa impostazione, tutti gli ebrei hanno respinto Gesù, e allora non c’è più nessun ruolo per Israele nella storia della salvezza, perché la sua funzione è stata assunta dalla Chiesa. Ma se torniamo al nostro testo, vediamo subito che quelli a cui Gesù si rivolge – e che sono anche quelli che lo hanno rifiutato – non sono Israele, ma solo alcuni dei suoi leader, come è scritto anche nella parte introduttiva alla parabola: “Entrato nel tempio, mentre Gesù insegnava gli si avvicinarono i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo” (Mt 21,23). È a questi che Gesù parla, e solo a questi dice, al termine del nostro capitolo, “Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare” (Mt 21,43).

Il problema, eventualmente, sarà quello di stabilire a quale popolo Gesù si riferisca. Papa Benedetto XVI, a Colonia, visitando la sinagoga in occasione della Gmg di Agosto 2005, non ha nascosto i problemi teologici che vanno affrontati quando ci poniamo di fronte al popolo dell’alleanza: “Incoraggio un dialogo sincero e fiducioso tra ebrei e cristiani: solo così sarà possibile giungere ad un’interpretazione condivisa di questioni storiche ancora discusse e, soprattutto, fare passi avanti nella valutazione, dal punto di vista teologico, del rapporto tra ebraismo e cristianesimo. Questo dialogo, se vuole essere sincero, non deve passare sotto silenzio le differenze esistenti o minimizzarle: anche nelle cose che, a causa della nostra intima convinzione di fede, ci distinguono gli uni dagli altri, anzi proprio in esse, dobbiamo rispettarci e amarci a vicenda”.

Tra le cose che ci distinguono, ovviamente, c’è la fede dei cristiani in Gesù Messia e Signore. L’ebraismo di oggi, tranne qualche piccola parte (gli ebrei messianici), non riconosce il Cristo come Salvatore di Israele, ma questo, sostengono alcuni teologi, non vieta di pensare che ancora oggi, grazie alla fedeltà di Dio in forza della sua promessa irrevocabile, l’antico popolo dell’alleanza abbia un ruolo salvifico nella storia a favore dell’umanità intera. Dette queste poche cose su una questione alquanto complessa, serve aggiungere che la parabola, ovviamente, si apre anche ad altri piani interpretativi. Così commenta Hagner, ad esempio: “Fare la volontà del Padre, per Gesù, non è semplicemente una questione di parole, quanto piuttosto di fatti (cfr. Mt 7,21-27; 25,31-46).

Una cosa è dire che si farà la volontà del padre, e una cosa è farla veramente: le parole, da sole, non significano nulla. I leader religiosi ebrei spesso credevano di poter di poter servire Dio e di essere fedeli alla Legge, ma di fatto non obbedivano a Dio. Non avevano ascoltato il messaggio del Battista, così come ora si oppongono al messaggio di Gesù. Il paradosso sta nel fatto che i peccatori, disprezzati da tutti, gli esattori delle tasse e le prostitute, quelli che non potevano dire di essere giusti, questi, invece, hanno creduto nel Battista e in Gesù. Loro, e non i ‘giusti’ dell’establishment, entreranno nel Regno di Dio. Quelli che sapevano di avere un assoluto bisogno di grazia saranno coloro che si apriranno ad essa e che per questo la riceveranno”.

Sul piano della nostra esperienza di Chiesa, invece, giova ricordare che tutti, a causa della nostra debolezza, rischiamo di stare dalla parte di quelli che dicono “Signore, Signore”, e non facendo la volontà di Dio, non entrano nel regno dei cieli (cfr. Mt 7,21). Dio ci aiuti, perché alle nostre parole corrisponda sempre la vita vissuta.

AUTORE: Giulio Michelini