Nel Covid-19 c’è una grazia, quella della discontinuità

Le vere crisi non si hanno quando i pirati navigano al largo, ma quando i pirati assaltano la città, quando la invadono e la saccheggiano. Il vero nemico, il nemico più pericoloso non è quello che sta fuori, ma quello che sta “fuori & dentro”. Abbastanza dentro da affrontarti, e allo stesso tempo prenderti anche alle spalle e da sotto o addirittura dall’interno. Abbastanza fuori da non poterlo tu circondare, né trovarlo, isolarlo, tagliargli la ritirata.
Un po’ questa è l’esperienza che tutti o quasi stiamo facendo su questo pianeta in questi primi mesi del 2020. Paghiamo così tutti la cambiale contratta da alcuni che hanno dato credito a populisti, sovranisti e smerciatori di “balle” (o “fake news”).
Sicché oggi scopriamo una cosa che la sapienza biblica e anche molta sapienza umana sanno e insegnano da sempre. La sostanza non è materia, ma relazioni, e le relazioni sono ambigue: buone eppure sempre pervertibili. Tanto per rimanere all’attualità, le relazioni infettano e le relazioni curano. Nella storia umana non ci sono spazi o tempi esenti da relazioni ambigue, se non nelle pericolosissime menzogne dei fondamentalisti e dei settari di ogni matrice.

L’ambiguità delle relazioni non conosce limiti di spazio o di tempo.

Un esempio, ma se ne potrebbero fare tanti. Uno studioso dell’Università di Stanford (California) ha calcolato che le mancate vittime da mancato inquinamento per lo stop a produzione e trasporti causato dal coronavirus potrebbero superare per numero i morti causati dal coronavirus. Ciò non rende meno dolorose o giustificabili queste morti; ci ricorda quello che sa benissimo chi conosce la vicenda di Giacobbe o le genealogie di Gesù proposte dai Vangeli. Nella storia umana, bene e male non si confondono, ma si intrecciano. La zizzania verrà separata dal buon frutto solo alla fine. Non solo lungo l’asse dello spazio, ma anche lungo l’asse del tempo succede lo stesso. Quante volte vorremmo troncare con un passato di relazioni che ci opprimono, ma non ce la facciamo perché non abbiamo tutta la tantissima forza che serve per fermare un treno in corsa. Sicché il passato continua a strappare presente al futuro e questo non può mai cominciare davvero.

Una medesima ambiguità marchia anche la pandemia che stiamo vivendo. La marchia, non la giustifica, non la spiega, non la addolcisce. La marchia e basta. Et-et . Questa pandemia insieme a disastro, lutto e dolore porta con sé anche una enorme, rarissima opportunità, una grazia – direi – anche se con timore. Una grazia che non attenuta il dolore, il lutto, il disastro. Il disastro economico (che non sarà secondo a quello sanitario) e anche il disastro politico (una temibile sbornia collettiva per autoritarismi e paternalismi: pericolosi come quello russo e cinese, miserrimo e non meno pericoloso come quello dei dilettanti al potere a Roma).

Eppure anche una grazia porta con sé questa pandemia, una grazia che non avrebbe alcun senso tacere e sprecare. La grazia della discontinuità.

Nella discontinuità la ambiguità si rivela più chiara. Le cure di un medico, di un infermiere, di un volontario, di un lavoratore che rischia in fabbrica o di un commesso che rischia al bancone, divengono più facilmente identificabili rispetto alla irresponsabilità di chi continua a diffondere una malattia che ha in corpo, che potrebbe non sviluppare proprio mentre la trasmette con esiti letali. Nella discontinuità della crisi la catena temporale si allenta.
Dovendo chiudere e fermarci, riceviamo la opportunità di pensare e riflettere. La opportunità di renderci conto delle scemenze cui abbiamo creduto (“la decrescita felice”, “prima gli italiani”… o altri, fa lo stesso, e via dicendo). Pensiamo a quante donne rifioriscono se un miracolo le libera dal marito violento o da uno stalker. La pandemia distanzia un po’ il passato dal futuro e rende il presente un momento in cui aumentano le possibilità di “ricominciare”.

Ecco la grazia

Poter ricominciare, sapere che domani dovremo/potremo ricominciare avvalendoci di un po’ più di discontinuità di quella che solitamente abbiamo. Ricominciare non è sempre possibile. Quando diventa possibile è una grazia. Grazia che si può sprecare, cacciandoci in una nuova brutta storia. Grazia che si può cogliere: rinnovandoci. Ciò vale per i singoli, ma anche per le collettività. Come italiani, imboccando il tunnel del fascismo sprecammo il primo dopoguerra; imboccando la via della democrazia, della repubblica, dell’“Occidente” e dell’Europa non sprecammo il secondo dopoguerra.

Per sfruttare la grazia del poter ricominciare occorre discernimento. E occorre anche ascesi. Occorre dire no, un “no” secco e forte a tutti quelli che provano a riempire la pausa della discontinuità con un intrattenimento senza ricreazione, con rumore invece che con parole e pensieri. Di spettri e immagini laddove, assaporando l’amaro dell’assenza dei corpi, potremmo invece prepararci ad incontrare nuovamente e forse in modo rinnovato labbra, mani, occhi: corpi con volti. Per ricominciare occorre dire no a ogni riempiticcio. Rivomitarlo immediatamente prima di ingoiarlo. Dire no ai venditori di sacro (con o senza tonaca) che ci stordiscono quando invece di accecanti immagini potremmo avere il tempo per riabituare o affinare l’orecchio alla “voce sottile del silenzio”. Dire no a chi fantastica di scenari solo per fare impressione, invece che applicarsi al travaglio intellettuale, e spirituale, del discernimento.
Poter ricominciare: una grande opportunità, e forse – credo – una grazia rara.

Luca Diotallevi
sociologo, Università Roma 3