Il giusto non giudica

“La preghiera del povero attraversa le nubi”, sentenzia l’Autore del Libro del Siracide che ascoltiamo domenica XXX del TO.

Prima lettura

L’opera poetica del libro del Siracide affronta i più disparati temi di sapienza popolare quali ad esempio la convivenza civile, la responsabilità personale, la scelta della moglie giusta, le varie attività lavorative, …, e, relativamente alla pagina di nostro interesse, la questione che si pone è quella giustizia divina descritta tuttavia in modo ‘ambivalente’.

Il Signore viene infatti presentato come un giudice imparziale che non fa “preferenza di persone”, ma nello stesso tempo risulta essere ‘parziale’ in quanto si schiera dalla parte degli “oppressi” che hanno subito ingiustizie.

Il Siracide a proposito evidenzia alcune categorie di poveri tra cui la vedova le cui lacrime (questo si legge dal Testo per intero) insieme alla preghiera non possono che arrivare al Signore poiché, come insegna anche il Talmud, non c’è porta celeste che possa resistere alle lacrime di dolore (Baba Mesi‘a). Il Signore ascolta quindi il grido dei poveri che senza arrendersi insistono facendo sì che la loro richiesta oltrepassi le “nubi” per impetrare “soddisfazione” ed “equità”.

Salmo

Anche il Salmo alfabetico (34) con cui rispondiamo alla prima lettura riprende i temi della ‘parzialità’ divina e dell’esaudimento del grido dei poveri.

Soprattutto parla della funzione di riscattatore ( goel ) che il Signore assolve a favore dell’intera vita dei suoi “servi” intendendo cioè sia la difesa dell’aspetto biologico dell’uomo terreno che quello spirituale ed eterno in quanto “non sarà condannato chi in lui si rifugia”.

LA PAROLA della Domenica

PRIMA LETTURA
Dal Libro del Siracide 35,15b-17.20-22a

SALMO RESPONSORIALE
Salmo 33

SECONDA LETTURA
Dalla II Lettera a Timoteo 4,6-8.16-18

VANGELO
Dal Vangelo di Luca 18,9-14

Seconda lettura

La seconda lettura tratta dalla II Lettera di san Paolo a Timoteo ci presenta ancora i temi della giustizia resa dal Signore all’oppresso e della salvezza eterna promessa ai credenti. In questo caso l’oppresso è lo stesso Paolo che, volgendo alla conclusione la Lettera indirizzata al suo discepolo e sentendo vicino il momento di lasciare questa terra, ripercorre la sua vita passata non per esaltare se stesso, ma per incoraggiare Timoteo ad adempiere fedelmente il suo ministero.

L’Apostolo ricorre alla metafora ‘atletica’ parlando di “combattimento” ( agonia ) di “corsa” ( dromon ) impiegati nell’estenuante opera di evangelizzazione e di “corona” ( stefanos ) conquistata mantenendo sempre salda la “fede”. Paolo scrive con questo tono così colmo di pathos perché di fatto ha vissutoun’estrema solitudine, un abbandono totale da parte dei suoi relativamente ad una situazione in cui ha rischiato di venir ucciso, ma il Signore l’ha sottratto “dalla bocca del leone”, ovvero l’ha scampato dal pericolo della condanna a morte (Sal 22,21; Dn 6).

Vangelo

La pagina del Vangelo secondo Luca ci propone l’ascolto della parabola del fariseo e del pubblicano, parabola racchiusa tra il primo versetto in cui è l’Autore ad evidenziare il motivo dell’insegnamento e l’ultimo in cui è Gesù ad esporre la risoluzione del motivo iniziale. Si tratta di due uomini che ‘salgono’ al tempio a pregare il cui atteggiamento attira il nostro interesse.

Il fariseo inizia bene la sua preghiera: Dio è chiamato subito in causa e il motivo è il ringraziamento. (Questo rientrava nella prassi religiosa giudaica, basta considerare i Salmi o tante altre preghiere). Poi però la preghiera del fariseo evolve in un elenco di categorie a cui orgogliosamente afferma “tra sé” di non appartenere: “ladri, ingiusti, adulteri” e vi aggiunge il “pubblicano” presente. Non solo.

Questo fariseo pratica più di quanto la Legge suggerisce: dice infatti di digiunare due volte alla settimana, quando in realtà il digiuno era imposto nel giorno dell’espiazione (Lv 16; 23); afferma di pagare la decima su quanto possiede, quando invece tale dovere riguardava solo colui che vendeva (Dt 12).

Effettivamente, presentato così, il ritratto morale del fariseo risulta impeccabile! Ad esso subentra la descrizione del pubblicano: rimane in lontananza, non alza gli occhi, si batte il petto in segno di contrizione, si definisce ‘peccatore’ e rivolge al Signore l’accorato appello alla pietà verso di lui. Il fariseo dice di sé cose vere, altrettanto lo è per il pubblicano che era ufficialmente riconosciuto come ‘peccatore’ o frequentatore di peccatori (5,30.32; 7,34; 15,1).

La soluzione sta infatti – come dicevamo – nei versetti iniziale e finale: non può esserci compatibilità tra l’‘essere giusti’ e il disprezzo per gli altri. E il risultato finale è proprio un ribaltamento dei ruoli: il pubblicano che si definisce sinceramente peccatore viene “esaltato”, il fariseo orgoglioso del suo essere ‘giusto’ se ne ritorna “umiliato”.

Questo non significa affatto assumere un atteggiamento contrario alla ‘legge’ del Vangelo, quanto piuttosto evitare la presunzione di giudicare gli altri non ritenendo possibile che gli altri possano davvero pentirsi e credere soprattutto al carattere misericordioso del Signore che nelle Sue vie imperscrutabili può raggiungere anche i cuori più ostinati e riaccoglierli nella comunione con Lui.

Giuseppina Bruscolotti