Guidati dal Bel Pastore

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini IV Domenica di Pasqua - anno B

Questa domenica è comunemente chiamata “del Buon Pastore”, a causa del Vangelo proclamato nella liturgia. L’espressione è ormai consacrata dall’uso; tuttavia essa non rende completamente ragione del testo evangelico originale, il quale letteralmente suona così: “Io sono il pastore, quello bello”. È vero che ciò che è buono è anche bello, ma porre l’accento direttamente sulla bellezza pare avere una forza diversa. Chissà se Dostoevskij pensava a questo Vangelo, quando scrisse che sarà la bellezza a salvare il mondo? Il brano di oggi rappresenta ancora un momento della rivelazione che Gesù fa di sé.

L’espressione decisiva è quell’Io sono, espressione vicina al temine ebraico con cui Dio si presentò a Mosè e che ritorna frequentemente nel Vangelo secondo Giovanni. All’inizio di questo capitolo 10 abbiamo ascoltato: “Io sono la porta delle pecore”. Nel capitolo 9: “Io sono la luce del mondo” E anche molte altre volte. L’identificazione di Gesù con il pastore viene anticipata già nell’Antico Testamento, particolarmente nel capitolo 34 del libro del profeta Ezechiele, che riferisce una violenta requisitoria di Dio contro le corrotte guide del popolo: politici, giudici, amministratori; insieme alla promessa che in futuro Lui stesso ne sarebbe divenuto il vero pastore. Promessa che si è compiuta nel Signore Gesù. In una civiltà agricolo-pastorale, come era quella mediorientale del I secolo d.C., l’immagine del pastore e del rispettivo gregge era molto più evocativa di quanto non lo sia per noi, ospiti di una cultura post-industriale, per i quali non è davvero frequente incontrare un gregge con il suo pastore, e meno ancora immaginare che possa esistere un rapporto personale tra lui e le singole pecore. Se qualcuno ha avuto la ventura di conoscere questi pastori, che custodivano i loro greggi negli estesi pascoli dell’Abruzzo o della Maremma, non se ne stupirà.

Gli antichi chiamavano pastori anche i loro capi, i responsabili; Abramo, Isacco, Giacobbe, fino al re Davide erano considerati pastori santi, chiamati a guidare il popolo. Ai giorni nostri è diverso: quei governanti che hanno avuto la pretesa di essere guide di popoli, hanno lasciato brutti ricordi, sia che si trattasse di Führer, di Duce, di “piccolo padre”, di guida suprema o di “caro leader”. D’altro canto i nostri contemporanei non accettano facilmente di essere paragonati ad un gregge. Ognuno ci tiene a distinguersi dai vicini, pensandosi un diverso, un ribelle, un marginale; anche se poi indossa gli stessi jeans, parla con lo stesso telefonino, fa le stesse cose degli altri, allo stesso modo di tutti gli altri.

Il gregge di cui parla questo Vangelo però è davvero unico: il pastore conosce personalmente ogni pecora e ogni pecora conosce personalmente il pastore. La conoscenza che Gesù ha di ciascuno di noi va ben oltre. Egli dice di conoscerci come il Padre conosce Lui e Lui conosce il Padre. Si tratta di una relazione di amore reciproco. Nel linguaggio semitico il verbo “conoscere” si usa per dire la relazione amorosa, perfino la relazione sessuale. È questo il significato profondo della conoscenza che il Pastore ha di noi. Per Lui nessuno è solo un numero, ma ognuno ha un nome proprio, con il quale è chiamato. Quando ti chiamano, tu esci dall’anonimato: diventi qualcuno anche tu. E se a chiamarti è una persona importante, senti di contare qualcosa.

Pensare che Dio sa il tuo nome e che silenziosamente ti chiama, è roba da impazzire. Gesù non spiega come fare ad essere conosciuti da Lui; dice semplicemente: “Le mie pecore conoscono la mia voce e io le conosco”. Non c’è bisogno di essere un eroe o un forte o una persona famosa; basta ascoltare la sua Parola e si esce dall’aborrita uniformità. Il discorso poi sale di tono, il Pastore dice: “Io do la mia vita per le mie pecore”. Il senso primario, nel contesto di questo Vangelo, fa riferimento a Gesù che sacrificherà la sua vita in nostro favore, come un pastore che espone se stesso per salvare le pecore dal lupo rapace. Si sa però che dare la vita non è solo morire per qualcuno, ma prima ancora è uscire da se stessi, perché altri abbiano vita. Dare la propria vita vuol dire anzitutto vivere per qualcuno.

Gesù non solamente dà la sua vita per noi, ma dà la Vita a noi. È la risposta al problema dei problemi. Spesso senza saperlo, ci domandiamo: dove si passerà mai per andare a trovare una vita piena, che non deluda, che non sia costantemente minacciata dalla paura, dalla morte? Alcuni si sono provati a rispondere, ma senza molto successo. In realtà nessuno al mondo sa dove si trovi quella strada, in che direzione vada e nemmeno se esista. Anzi c’è chi ritiene che non esista e che sarebbe meglio accontentarsi del piccolo cabotaggio quotidiano. Noi diciamo che una vita piena è possibile, ma che può solo esserci donata da Colui che ne è la fonte e che può darla senza misura. “Chi crede in me ha la Vita eterna”.

AUTORE: Bruno Pennacchini, Esegeta, già docente all’Ita di Assisi