Il caso non è chiuso

Hanno fatto il giro del mondo e peseranno a lungo le immagini delle sevizie ai prigionieri iracheni da parte di militari americani (e britannici). Tanto più che le violenze si verificavano proprio laddove avevano avuto luogo quelle dei sicari del vecchio regime iracheno e la caduta di un tiranno sanguinario, non essendosi trovate le famose armi di distruzione di massa, restava l’ultima linea di legittimazione del conflitto da parte della presidenza americana. Non basteranno certamente alcuni “pesci piccoli” spediti dinanzi a una corte marziale a considerare il caso chiuso. D’altra parte questa vicenda, proprio perché gli Stati Uniti sono una grande democrazia, potrebbe essere per l’amministrazione americana l’occasione della svolta, per passare da una impostazione “ideologica” a una impostazione “strategica” della politica non solo in Iraq, ma più ampiamente nella lotta al terrorismo internazionale di matrice islamica. Dinanzi alla commissione congressuale di inchiesta sui fatti dell’11 settembre stanno emergendo ora i primi retroscena della presa di decisione per la guerra prima in Afghanistan poi in Iraq. Ma sta anche emergendo il fatto che non era stata prevista una conclusione della guerra, una risistemazione strategica dell’area. Di qui la necessità di un ripensamento – di cui da tempo si avvertono gli elementi dialettici – all’interno dello stesso partito e dell’entourage del presidente, prima ancora dell’esito della competizione elettorale tra Bush e il suo sfidante democratico alle elezioni di novembre. Né l’unica superpotenza d’altra parte né il sistema delle relazioni internazionali possono permettersi un ulteriore aumento del tasso di odio e rancore anti-occidentale che l’abominio (per usare un termine del presidente americano) nel carcere di Abu Ghraib minaccia evidentemente di moltiplicare a livello globalizzato. Associato a una impostazione ideologica unilaterale e non efficace, come quella dettata dalle certezze dei circoli neo-conservatori, liquefatte in queste settimane, anche un grande potenziale militare rischia infatti di non risolvere i conflitti, moltiplicando i costi non solo materiali, ma soprattutto etici e morali. L’occasione della visita del presidente Bush in Europa in occasione del 60’anniversario dello sbarco in Normandia (e della liberazione di Roma) potrebbe essere l’occasione per rilanciare proprio qui in Europa un nuovo progetto di leadership basato sulla forza dei valori democratici e sul realismo della partnership, del confronto e del dialogo. Perché le promesse di un Iraq prospero, pacifico e democratico, che sembrano così drammaticamente smentite dalle immagini di questi giorni, abbiano finalmente la concreta possibilità di essere realizzate.

AUTORE: Francesco Bonini