Il convegno sul “bene comune” in Umbria

Si è svoltosabato pomeriggio ad Assisi il convegno “L’Umbria e il bene comune” organizzato dalla Conferenza episcopale umbra, Consulta regionale affari sociali, lavoro, giustizia, pace e salvaguardia del creato. I lavori sono stati introdotti da Silvia Angeletti e Vincenzo Menna, membri della Consulta regionale, e dal saluto di mons. Domenico Sorrentino vescovo di Assisi – Nocera – Gualdo. Il presidente della Conferenza episcopale umbra mons. Vincenzo Paglia ha ricordato come il seminario volesse essere un invito a tenere vivo il dibattito sullo sviluppo dell’Umbria, perché quando il dibattito è “alto” non scade in polemica sterile o peggio pericolosa. E una visione “alta” dell’Umbria richiede oggi un confronto comune tra tutti, fra la politica, l’economia, la cultura, la famiglia, la Chiesa. Nonostante il maltempo che in quelle ore ha colpito la regione in molti non hanno rinunciato a partecipare e a portare il loro contributo. Circa trenta sono stati gli interventi programmati.Idee per il futuro della nostra regioneL’economista Pierluigi Grasselli: “Servono chiare visioni strategiche” L’aspetto socio-economico è stato analizzato nella relazione di Pierluigi Grasselli, docente di Politica economica all’Università di Perugia, che ha rilevato nella dimensione identitaria e comunitaria, nella concertazione e nel confronto con le componenti della società, la base del processo di attuazione del bene comune. “L’importanza di un’indicazione di natura valoriale – ha detto il prof. Grasselli – è strategica per lo sviluppo della regione, che ricomprenda in sé tutte le aree e che possa incidere significativamente su comportamenti e scelte degli operatori. Lo stesso può auspicarsi a livello dei singoli territori, per i quali è forte l’esigenza di chiare visioni strategiche, per superare la navigazione a vista praticata da tante Amministrazioni. Una condivisione di valori, obiettivi, risorse e bisogni è in effetti presupposto di base per un’azione efficace nella prospettiva del bene comune”. L’aspetto territoriale ha un’importanza strategia se inteso come “ambiente, tradizioni, cultura, disponibilità di risorse umane, assetto economico e sociale, patrimonio istituzionale, intreccio di reti di relazioni; un complesso di elementi, cioè, tale da condizionare profondamente i risultati della vita individuale ed associata, e su cui incidere appropriatamente per coniugare al meglio il patrimonio identitario con la necessaria apertura al nuovo”. “Sotto il profilo politico-istituzionale, in generale – ha aggiunto – si auspica l’attivazione di uno spazio pubblico poliarchico sottratto al monopolio della politica, che dunque preveda l’esercizio di molteplici responsabilità per l’ideazione e la gestione dei processi di sviluppo (Conferenza episcopale umbra, Commissione regionale…) . Contestualmente va affrontata l’esigenza di riduzione del peso degli apparati burocratici pubblici, e di riavvicinamento della politica ai cittadini ed alle loro necessità, in una direzione attuatrice delle potenzialità innovative dello Statuto regionale”. Il bene comune, infine, è icompatibile con la presenza di povertà o di esclusioni di singoli o di gruppi. Giuseppe Croce: “Regione virtuosa per l’istruzione, ma poco dinamica nel sistema produttivo” In Umbria, ha rilevato Giuseppe Croce, docente di Politica economica all’Università La Sapienza di Roma, c’è una sostanziale stasi a livello economico, unita alla scarsa capacità di valorizzare il capitale umano, a fronte di una percentuale più alta della media nazionale di popolazione scolarizzata e di laureati in Umbria. Una regione virtuosa per la formazione e l’istruzione, ma poco dinamica nel sistema produttivo debolmente propensa all’innovazione e poco reattiva alla dotazione locale di lavoro qualificato, la cui domanda rimane piuttosto debole. “L’economia regionale – ha spiegato – è oggi segnata da un evidente squilibrio tra il capitale umano disponibile, da un lato, e lo stato anemico dei processi innovativi nell’economia, dall’altro; tra le risorse disponibili e le effettive capacità di valorizzarle. La progressiva qualificazione del lavoro rappresenta effettivamente una condizione per l’innovazione solo se l’offerta di lavoro qualificata rimane nella regione ed è effettivamente impiegata in posti di lavoro di qualità corrispondente. L’Umbria, regione piccola e con una struttura professionale appiattita verso il basso, è fortemente esposta al rischio di perdere i propri lavoratori più qualificati. D’altro canto, le componenti meno mobili del lavoro qualificato saranno esposte al rischio di rimanere disoccupate o di essere utilizzate nell’economia locale ma in posti poco qualificati, con uno spreco del loro potenziale professionale”. Per questo “in Umbria, il perseguimento di questi obiettivi richiede che l’intervento pubblico faccia propri, anche a costo di discontinuità rispetto alle prassi abituali, alcuni chiari orientamenti che definiscono quasi un’agenda essenziale delle politiche di sviluppo: maggiore selettività e concentrazione su obiettivi strategici; fine di una concertazione dirigistica e promozione del protagonismo di soggetti leader; apertura a soggetti e reti extra-regionali”. Il primo obiettivo è importante in quanto mira ad aiutare le famiglie e, insieme ad esse, le imprese in difficoltà. L’analisi del giurista sulle riforme istituzionali:bipolarismo consociativo senza responsabilitàArticolata, complessa, puntuale, la relazione del giusrista Francesco Clementi, che non ha risparmiato un’analisi critica della situazione umbra in relazione alle riforme politico – isstituzionali: dalla riforma endoreginale alle “inattuazioni” di quanto previsto dallo Statuto regionale come la Commissione di Garanzia statutaria e il difensore civico regionale. “L’idea del bene comune, letta attraverso la dimensione dei suoi assetti politico-istituzionali e delle conseguenti determinazioni normative, – ha detto a conclusione del suo intervento – ci presenta un’Umbria che nel suo complesso appare ancora troppo ambiguamente conservatrice sul modello di cultura politico-istituzionale”. “Nel decennio 1999-2009, ossia da quando l’elezione diretta del Presidente ha nei fatti incardinato una dinamica bipolare, l’Umbria – ha aggiunto – si è comodamente adagiata all’interno di un bipolarismo debole, che si presenta confortevole, proprio perché interpretato dai soggetti politici in modo pressoché non conflittuale, e che viene considerato vantaggioso, proprio perché strutturalmente consociativo”. L’analisi dell’evoluzione del bipolarismo umbro, progressivamente scivolato da un “bipolarismo debole ad un bipolarismo propriamente consociativo” non assolve l’opposizione poichè la scelta di “resistere ad una evoluzione verso un bipolarismo di tipo maggioritario, fortemente competitivo, trasparentemente responsabile e strutturato sull’asse del governo” è, per il giurista, “una scelta consapevolmente sostenuta dalla maggioranza e condivisa dall’opposizione, le quali, stemperando consociativamente le loro rispettive responsabilità, ne riducono ipso facto anche la stessa pubblica e trasparente imputabilità”. A farne le spese è il “sistema-Umbria in generale” e “lo stesso sistema della politica, perché fa affondare qualsiasi idea di responsabilità, trasparenza e fiducia da parte dei cittadini nella politica e nelle istituzioni, abbassando i livelli quantitativi e qualitativi del prodotto politico, e alimentando proprio quel sentimento di antipolitica e quelle fratture sociali contro le quali gli stessi attori politici , senza differenza alcuna- sostengono invece di volersi impegnare”. L’intervento del sociologo Luca DiotalleviLaicato ancora troppo deboleUn’analisi della presenza e ruolo dei cattolici in Umbria è stata curata da Luca Diotallevi, docente di Sociologia generale all’Università Roma Tre, che ha evidenziato una sorta di debolezza delle Chiese e del cattolicesimo umbri, che ha determinato in qualche modo al primato sociale della politica dominante. “È anche la debolezza e a volte la condiscendenza delle Chiese e del cattolicesimo umbri – ha detto – a ridurre le opportunità del passaggio da una monarchia ad una poliarchia sociale e alla sua ‘società aperta’, società caratterizzata da una più matura sussidiarietà, tanto verticale quanto orizzontale, in cui né istituzioni politiche né altre istituzioni accampino pretese di egemonia o millantino monopoli sulla cura del bene comune. Tutto questo in una regione dove il clero è fortemente caratterizzato, a scapito del laicato”. Una sorta di “devozionismo protetto” del cattolicesimo umbro contemporaneo, che “è costruito sulla disponibilità di una quantità notevole di clero, su una sua distribuzione capillare sul territorio (a scapito delle funzioni di staff), sulla sua scarsa disponibilità a far passare il laicato da una condizione di consumo religioso ad una di partecipazione religiosa senza passare per la forca caudina di modelli clericali. Questo orientamento si manifesta chiaramente quando, in presenza di un calo del clero, che nelle Chiese umbre si è manifestato in tempi molto diversi, tutte hanno teso a reagire”. L’associazionismo laicale, ed in modo del tutto particolare quello di Azione cattolica rappresenta un ottimo predittore dei livelli di partecipazione religiosa di forma ecclesiale (da non confondersi con altre forme di aggregazionismo religioso). L’Umbria, già storicamente segnata da una tardiva, lenta e dal clero contrastata diffusione dell’associazionismo laicale, come e più di quanto si verificò in altre aree segnate dalla resistenza di tradizioni confraternitali (non di rado proto-manifestazioni del devozionalismo e di una estrema soggettiviz- zazione del consumo religioso), non ha visto mai invertirsi questa tendenza, restando fino ad oggi un’area in cui più raramente che altrove si fa al laicato questa proposta – come de iure si dovrebbe in un’area a forte identificazione religiosa.