Il Vangelo di Giovanni di questa domenica VI di Pasqua ci accompagna ‘speditamente’ verso le prossime solennità pasquali: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete” (Gv 14,19). “E io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi sempre, lo Spirito della verità” (vv. 16-17).
In pochi versetti è racchiusa la garanzia del permanere del Risorto in mezzo ai suoi, che nel contesto dell’Ultima Cena affrontano il dolore di un annuncio: la sua morte, che avevamo accantonato, ma che ora diventa ineludibile.
Una presenza che riguarda anche la comunità cristiana di sempre, quella delle origini, descritta nelle due letture che la liturgia ci propone; e in particolare la nostra comunità.
Una comunità cristiana chiamata a risplendere nel mondo per la sua capacità di farsi sale, “sciogliendosi” nelle necessità dei fratelli. Filippo opera in Samaria, compiendo le opere di Gesù (At 8,5-8). Gesù aveva iniziato il suo ministero partendo proprio dalle necessità concrete del suo popolo.
Ma per compiere le opere del Risorto non si può prescindere da lui e dall’amore per lui. Allora il mondo, anche quello che odia i cristiani, non avrà più alibi, perché le nostre opere portano l’eco di una vita donata, così come è descritta nella seconda lettura: “Questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo (1Pt 3,16).
Dirsi cristiani e poi sbraitare contro?
Certo, coloro che si dicono cristiani e hanno gridato per l’apertura al popolo della celebrazione eucaristica e poi hanno sbraitato sui social “stracciandosi le vesti” contro Silvia Romano e la sua conversione anziché gioire con la famiglia per il suo ritorno alla vita, non hanno certo “svergognato” coloro che non amano i credenti in Cristo, come ci ricorda san Pietro nella sua lettera (1Pt 3,16).
cristiaA questi cristiani san Paolo ricorda la necessità di provare a fare sul serio con il Vangelo per accostarsi all’eucarestia (1Cor 11,23-29). Forse, questo tempo di digiuno eucaristico rischia di essere passato invano.
È lecito domandarsi perché, l’odio verso i cristiani. A questo domanda ha già risposto Gesù: “Perché hanno odiato me” (Gv 15,18), riconoscendo un’attenuante al mondo: perché è incapace di riconoscere l’amore (14,17).
L’odio rende freddo il cuore e acceca la vista. Ma è proprio questa la “differenza” cristiana: rimanere legati a Cristo significa pensare e agire come lui, con la consapevolezza che solo l’amore è capace di disinnescare la miccia dell’odio.
Fa eco a questa visione sul mondo il pensiero di Paolo VI nel suo Testamento: “Non si creda di giovargli [al mondo] assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo”. La successione di atteggiamenti che Paolo VI sintetizza, sembra esplicitare quanto ci dice san Pietro nella seconda lettura, in riferimento all’amore per Cristo: “Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15).
La nostra fede non è filosofia ma è un incontro
La nostra fede non è una filosofia, né una serie di regole morali da osservare, ma un incontro che stabilisce una relazione permanente. Essa necessita continuamente di essere rinnovata da “gesti e parole”, che ne diventano l’alimento necessario. Non si può prescindere dalla logica dell’Incarnazione, che è la via scelta da Dio e non può non essere anche la via della Chiesa. Di conseguenza possiamo dire che è anche il criterio di discernimento per il nostro agire e il nostro credere. Questa stupenda sintesi, che tiene insieme l’essere e l’agire del credente, delinea anche il giusto rapporto tra la libertà dell’amore e dell’amare, con la necessità dell’agire secondo l’amore, espresso nei Comandamenti.
L’evangelista Giovanni delinea un interessante percorso in due affermazioni: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” e “chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama” (14,15.21). Sembrano esprimere lo stesso concetto, ma in realtà indicano un percorso e una priorità: l’amore liberamente ricevuto e accolto spinge a uscire da noi stessi, dai nostri egoismi, e ci impone regole e atteggiamenti che non feriscano l’altro, che non tradiscano quella relazione che ci ha cambiato la vita.
Allora scegliere di agire nel rispetto di quella relazione è accogliere i comandamenti, che diventano il segno di aver accolto quell’amore che è una Persona: Gesù Cristo, presente in mezzo a noi e nei fratelli. I comandamenti, e più in genere le regole morali, non definiscono l’amore, ma ne sono la custodia.
Don Andrea Rossi