Lavoro: il diploma fa la differenza e l’Umbria è sempre meno operaia

La fotografia del mercaro del lavoro regionale nel primo Rapporto annuale dell'Agenzia Umbria Lavoro

C’è un gran movimento nel mondo del lavoro. C’è chi lo trova e chi lo perde e deve cercarne un altro. L’Umbria comunque registra una diminuzione della disoccupazione (da circa il 10 per cento del 1995 a poco più del 5 del 2001) ed un aumento dell’occupazione cresciuta, nello stesso periodo, di quasi il 12%.Non solo. La nostra regione sembra seguire la tendenza delle regioni del nord, ovvero c’è più offerta di lavoro ma c’è anche un aumento dei contratti a termine e quindi di precarietà; aumenta la presenza femminile; il lavoratore umbro ha un titolo di studio che vuole sfruttare e i lavori meno qualificati sono coperti dagli immigrati (il 14 % degli avviati al lavoro). La disoccupazione è ancora in prevalenza giovanile, femminile ed istruita ma il rischio è in aumento per le persone di media età e meno istruite. E l’Umbria “rossa”, quella che votava in massa il partito degli operai si scopre ormai un popolo di impiegati, dove i lavoratori con il diploma sono ormai il 52%.Sono alcune delle istantanee che emergono dal “Rapporto annuale dell’Agenzia Umbria Lavoro” (Storia e tendenze del mercato del lavoro in Umbria nell’ultimo decennio), realizzato dall’Osservatorio sul mercato del lavoro, presentato a Perugia martedì scorso. Dal 1995 al 2001 – ha detto il responsabile dell’Osservatorio, Paolo Sereni – l’aumento dell’occupazione è stato determinato per il 90 per cento dal settore dei servizi, che attualmente occupa il 63 per cento dei lavoratori umbri (a fronte di un 5 per cento dell’agricoltura e un 32 dell’industria). Questo fatto ha contribuito ad aumentare la presenza femminile nel mercato del lavoro, ad incrementare il peso della componente impiegatizia e quindi il livello educativo medio degli occupati. Le donne – ha spiegato Sereni – rappresentano ormai il 40,5 per cento degli occupati (più 5 per cento rispetto al 1994), mentre nel 2001, per la prima volta nella storia della nostra regione, il numero degli impiegati ha superato quello degli operai e l’incidenza di persone in possesso almeno di un diploma ha superato il 52 per cento, sia tra gli occupati sia tra le forze di lavoro. Sotto la spinta dell’incremento occupazionale e malgrado anche il livello dell’offerta sia cresciuto, la disoccupazione è scesa a 19.000 unità (nel 1996 erano 32 mila)”. Secondo Sereni questo scenario, classico del mercato del lavoro italiano, sembra prossimo a subire rilevanti modifiche visto l’esaurimento della disoccupazione maschile, sotto il 3 per cento, e l’insufficienza degli ingressi generazionali. Il fatto che il tasso di disoccupazione femminile sia sceso dal 15 all’8 per cento indica chiaramente che il differenziale maschi-femmine è destinato a ridursi ulteriormente. Anche la struttura contrattuale – ha sottolineato Sereni presentando il secondo rapporto di ricerca dedicato ai flussi d’ingresso nell’occupazione dipendente per professioni – sta modificandosi rapidamente. Se l’incidenza dei contratti a termine sul totale dell’occupazione dipendente risulta ancora contenuta (circa il 10 per cento) diverso è il discorso sui nuovi ingressi: di questi, oggi, 3 su 4 avvengono con un contratto a termine (nel 1995 prevalevano ancora le assunzioni a tempo indeterminato). Il dato ‘peggiora’ nel caso si tratti di donne che pur godendo di posizioni mediamente più qualificate, hanno una condizione occupazionale caratterizzata da una maggiore precarietà e da una minore durata media dei posti di lavoro. Ad una maggiore dinamicità della domanda (il numero degli avviamenti annui è salito a quasi 90.000) ha corrisposto infatti una riduzione della durata media dei posti di lavoro. Circa il 60 per cento dei contratti di lavoro giunti a conclusione tra luglio 2001-giugno 2002 ha avuto una durata inferiore ai 120 giorni, il restante 40 ha fatto registrare una durata media inferiore a due anni. La caduta della natalità che ha interessato la nostra regione negli ultimi decenni sta determinando una progressiva contrazione delle uscite scolastiche e quindi degli ingressi nel mercato del lavoro. Le stime presentate dall’Osservatorio indicano che nel periodo 1996-2001, a fronte di un fabbisogno di circa 70.000 lavoratori, i giovani entrati per la prima volta nel mercato del lavoro sono stati 35.000. La differenza è stata colmata dall’ingresso nell’offerta di lavoro soprattutto di donne non più giovanissime, attingendo alla disoccupazione che, nel periodo, si è dimezzata e ricorrendo a lavoratori provenienti da fuori regione. Il fenomeno dell’immigrazione deve ormai essere considerato un elemento strutturale del mercato del lavoro umbro: attualmente, l’incidenza dei lavoratori stranieri equivale al 14 per cento degli avviati al lavoro e vengono utilizzati prevalentemente in professioni a bassa qualificazione, ma anche ciò potrebbe rapidamente cambiare come dimostra l’esperienza delle regioni del nord. E’ probabile che nei prossimi anni l’offerta di manodopera locale non sarà in grado di far fronte alla domanda per le professioni, qualificate e non, dell’edilizia (attualmente quasi la metà degli avviati viene da fuori regione , oltre ad un 10% di stranieri), ma anche per le professioni del settore ristorazione (camerieri e cuochi), del settore dei trasporti, della carpenteria metallica, e anche per professioni quali il saldatore e l’installatore di impianti e, ovviamente, per quelle del settore agricolo, senza parlare dei collaboratori domestici la cui domanda è già soddisfatta per tre quarti da immigrati. Per l’assessoreregionale alla formazione e mercato del lavoro, Gaia Grossi, la pubblicazione del primo “Rapporto annuale sul mercato del Lavoro” e del primo “Rapporto sulle Professioni in Umbria” “è un primo tassello del complesso sistema da attivare, grazie al quale – ha detto – disporremo di informazioni e di previsioni utili ad effettuare scelte migliori, sia nelle politiche del lavoro che in quelle dell’educazione e della formazione”.

AUTORE: M.R.V.