Padre Francesco: “Noi missionari non crediamo nella guerra”

Un'esperienza di riconciliazione e un'opera di educazione alla pace

Padre Francesco Pierli, originario di Città di Castello, è missionario comboniano, da molti anni in Kenya. Riceve La Voce, mezzo per lui prezioso di collegamento con la sua terra natale. Ci ha inviato, via e-mail, questa testimonianza nella speranza che sia utile e gradita ai nostri lettori. Il presidente Bush può battere tutti i tamburi che vuole per convincerci che la guerra è l’unica soluzione ai problemi del Medio Oriente, ma noi missionari non crediamo nella guerra, né alle tattiche dei potenti di turno. Oggi più che mai siamo convinti che i cittadini del mondo hanno bisogno di accogliere la presenza del “diverso” non come qualcosa di cui se ne farebbe volentieri a meno, ma come un “evento” dal quale nuova vita viene generata a favore di tutti. Noi siamo in piena armonia con Giovanni Paolo II e i vescovi del Medio Oriente, che anche nel 1991 si opposero a spada tratta alla guerra del Golfo avvocata da un altro Bush, il padre dell’attuale presidente. Noi missionari, particolarmente in Africa, siamo circondati da situazioni di guerre, e i soli frutti che vediamo crescere da queste sono rovina, morte, miseria, persone mutilate in molti sensi, e le varie infrastrutture sociali devastate, come per esempio: strade e ponti, con ospedali e scuole rase al suolo o rese inservibili, e Dio sa quando saranno ricostruiti. E quando l’odio cresce, diviene una valanga minacciosa che semina solo lacrime e distruzioni. Infatti, nella vendetta non ci può essere gioia e vita ma solo dolore e morte! Ma tanta gente anche oggi è a favore della vita in ogni sua manifestazione. A questo riguardo sono felice di condividere con i lettori de La Voce la positività di una iniziativa che si è maturata nella baraccopoli di Kariobangi, alla periferia di Nairobi. Qui vivono centinaia di migliaia di persone, le quali, giorno dopo giorno, devono affrontare le pesanti sfide che l’attuale sistema economico pone sulle loro spalle. Sette mesi sono passati da quella tragica mattina del 3 marzo quando, i Mungiki, una banda di mercenari, si avventò sulla popolazione della baraccopoli uccidendo 23 persone, tra giovani e adulti, mentre si recavano al lavoro, e incendiò diverse abitazioni. Una vendetta in pieno stile organizzata da qualche politico interessato ad innescare violenza a catena nelle baraccopoli in vista delle elezioni politiche che si terranno a fine anno. Purtroppo, la violenza in Kenya è sempre scoppiata alla vigilia delle elezioni, sia nel 1992 come nel 1997, ed è sempre stata organizzata dal regime al potere per indebolire l’opposizione. Religioni e culture a servizio della paceLa risposta più adeguata che si poteva dare a tale evento è stata organizzata da un piccolo nucleo di persone, e più precisamente, dal missionario comboniano Fratel Alberto Parise, dal mussulmano Sultan Sonjee, professore di antropologia all’Università di Nairobi, e da un cattolico kenyano, Vincent Omok, organizzatore del movimento contro la violenza “Chemchemi ya Ukweli”. Tutti e tre sono motivati dalle seguenti convinzioni: Dio è contro la violenza perciò chi ha fede deve positivamente lottare per la pace e la riconciliazione; nelle culture africane i simboli della pace sono molto più numerosi e convincenti di quelli che promuovono la guerra e la violenza. Che è giunta l’ora di combinare assieme le energie della fede e quelle delle culture locali per sconfiggere il mostro della violenza, prima causa della miseria ed enorme impedimento al progresso nel continente. La celebrazioneLa celebrazione è avvenuta il 3 ottobre nella parrocchia di Kariobangi, chiesa locale a cui tutte le vittime appartenevano. Sono venuti tutti, cattolici, mussulmani, protestanti, altre religioni, anziani e giovani, gente di alto rango e poveri. Non sono mancati i membri di varie ambasciate intervenuti per manifestare pubblicamente il loro appoggio al rafforzamento della pace, riconciliazione e solidarietà. Il primo momento è stato caratterizzato dal ricordo della sofferenza causata dalla violenza: diverse mamme hanno parlato dei mariti o dei loro figli uccisi, delle case distrutte dal fuoco, del senso di insicurezza e diffidenza che pervade la zona. Un piccolo gruppo teatrale ha inscenato qualche scorcio di quella terribile esperienza. Un menestrello locale ha cantato alcune nenie funebri e il pubblico ha sperimentato una solidarietà profonda con la sofferenza dei familiari delle vittime, modo, questo, alquanto necessario per sentire dal profondo del nostro essere la ripugnanza contro la violenza e la chiara determinazione ad essere promotori di riconciliazione. Sono stati anche letti brani tratti dalle Lamentazioni del profeta Geremia che piange sulla distruzione di Gerusalemme. Si è poi passati alla purificazione della terra e del cuore dal sangue innocente versato. Diverse carriole di terreno provenienti dai posti dove la strage era stata perpetrata sono state portate in chiesa, e gli anziani e il sacerdote hanno asperso la terra con acqua benedetta usando piante tradizionalmente usate dagli africani per cerimonie di purificazione dal sangue umano. Anche diverse madri sono intervenute nella purificazione dal sangue con il panno che usano per sostenere il loro grembo quando sono incinte. Ogni momento della cerimonia era carico di grandissima forza emotiva e coinvolgente. Il brano biblico di Caino e Abele ed un brano del Corano, ambedue i testi chiaramente opposti al versamento del sangue umano, sono stati proclamati e diverse poesie sono state recitate dai bambini e vari canti eseguiti dalla corale locale. Infine, la terza parte, è stata caratterizzata dalla preghiera per la pace di san Francesco, prima recitata e poi cantata. Si sono poi piantati quattro alberi della pace usando la terra purificata dal sangue. Qui ogni gruppo etnico ha un suo albero della pace, ed è quello, generalmente, sotto la cui ombra gli anziani si riuniscono per stipulare un trattato di pace dopo un conflitto, oppure è quello che si pianta per ricordare, come memoria imperitura, una pace sofferta ma raggiunta dopo vari tentativi di riconciliazione. Nessuno può tagliare tali alberi e la comunità è impegnata ad innaffiarli in tempo di siccità. I quattro alberi sono stati piantati di fronte alla chiesa di Kariobangi, cosicché, ogni volta che la gente andrà in chiesa, si ricorderà della riconciliazione avvenuta e dell’impegno preso di fronte a Dio e agli antenati di non più usare la violenza, ma al contrario, di assumere atteggiamenti di apertura verso tutti. Mentre i quattro alberi venivano interrati, la gente pregava i salmi o alcuni brani coranici e i vari rappresentanti dei gruppi recitavano oppure cantavano diversi proverbi che inneggiavano alla pace e alla riconciliazione. Vorrei concludere questa mia condivisione con voi proponendovi un proverbio Maasai che, a mio parere, ha in sé una grande sapienza e di sicuro può essere di insegnamento a tutti e ovunque: Memira Eishoro ilukuni: Nessuno perde quando ci si ascolta a vicenda.

AUTORE: Padre Francesco Pierli