Quali possibili usi militari per la caserma Piave?

Orvieto / Mozione del coordinamento della "Margherita" al Consiglio comunale

Chi poco poco torna indietro nella storia e rivanga le origini in Orvieto del “Casermone”, poi divenuto caserma Piave, si può rendere conto degli enormi sacrifici che comportò la sua costruzione per una comunità economicamente limitata, prettamente a carattere agricolo, come era la nostra negli anni ’30, quando fu stipulata una convenzione tra il Comune di Orvieto ed il ministero dell’Aeronautica. Essa prevedeva l’edificazione di una caserma, capace e moderna, con oneri a carico dell’Ente locale, che il detto Ministero avrebbe riempito, ospitandovi l’intero complesso del centro della III Zona aerea territoriale. Per il gigantesco, a quell’epoca, impegno che vi fu profuso dal punto di vista tecnico, tra materiali e forze lavorative, e per l’impiego di risorse oltre misura, a carattere finanziario, che per anni posero in rosso l’esiguo bilancio comunale, l’impresa apparsa rischiosa si rivelò nel tempo provvidenziale per i suoi marcati risvolti positivi. Insomma la città cominciò a crescere davvero, non solo come numero, ma anche come tono. Lo stesso aeroporto, sull’altipiano dell’Alfina, ne fu un’immediata conseguenza e conferma. La presenza poi di una caserma di quelle proporzioni contribuì in modo significativo a farla conoscere nell’intero territorio nazionale, perché vi sbarcavano soldati ed ufficiali e sottufficiali da tutte le parti della penisola e, se quelli dell’Aeronautica ci tenevano a distinguersi tra i vari corpi militari per una certa raffinatezza di modi e specialità di estrazione, rivelantisi perfino nella divisa che indossavano, la loro fu una presenza senza dubbio qualificante che contribuì al suo sviluppo civile. Ma soprattutto l’economia locale fu quella che ne trasse i più sensibili vantaggi, per cui la crescita del benessere nel tempo, nei diversi decenni che seguirono, per l’avvicendarsi delle stesse presenze militari e la residenzialità di non poche di esse, divenne un dato di fatto incontrovertibile. E i cosiddetti “giuramenti”, che riversavano sulla rupe, alle due o alle tre, anche se per una giornata sola, una massa di gente, piovuta d’ogni dove, tale e tanta quanta quella del posto? Ma quello che è il bello, è che il fenomeno di questa presenza militare ad Orvieto, salvo episodi sporadici e senza strascichi, non creò mai fastidi o disagi a nessuno, tanto meno sul piano dei rapporti istituzionali e di integrazione incontrastata con la cultura e la popolazione residente. Molte cose cambiarono con la guerra, ma fu quella circostanza a rivelare quali particolari vincoli, quasi familiari, la cittadinanza nutrisse per questa componente diventata essenziale. Gli Orvietani, in quello sciagurato 8 settembre, – stranamente certe cose avvengono sempre di settembre – non si fecero affatto scrupolo di rivestire di sana pianta, di abiti civili, i circa tre mila soldati italiani in fuga dal casermone, perché, in fondo, anche loro erano “fiji de mamma”. Comunque, la fortuna volle che il contingente, di cui si godeva prima, appena passata la bufera, si riconfermasse e conservasse dopo, anche se sotto altro nome e divisa. E vennero i famosi Car, Centro addestramento reclute dell’Esercito rinnovato. Comunque, però, cominciò già d’allora quel male sottile che lentamente, ma inesorabilmente, ne ha minato la consolidata esistenza. Con il subentrare della politica democratica e del clientelismo partitico, che faceva ardita l’ambizione di ogni comunanza nel chiedere ed anche nell’ottenere; dell’affievolimento, pure in loco, di certe effusioni nazionalistiche sotto il martellamento di reazionari principi antimilitaristici con il conseguente relativo persistente occultamento dell’ottica tradizionale; della trasformazione del concetto di leva e di esercito e dei normali criteri di acquartieramento e di addestramento, nonché dell’adozione di criteri amministrativi meno pesanti, comportanti inevitabili “razionalizzazioni” da parte della Difesa, di chiusura o di riqualificazione di determinati reparti, il processo di involuzione è divenuto inarrestabile tanto che la situazione attuale di questa già vecchia caserma, ormai non più casermone, nonostante l’altisonante richiamo del Piave, può dirsi veramente languida, boccheggiante. Se non la si vuol lasciare morire – di un certo degrado materiale i segni appaiono già evidenti -, dato che non ci sostiene una più fervida fantasia, “bisogna compiere ogni possibile sforzo per garantire la prosecuzione del rapporto convenzionale in essere – è detto così in una mozione presentata, in data 14 settembre, al Consiglio comunale di Orvieto dal coordinamento della “Margherita”- tra il Comune di Orvieto ed il Ministero, invitando quest’ultimo al rispetto di quanto previsto all’art.5 relativo all’impegno per mantenere “costantemente in pieno l’accasermamento delle truppe”. Il medesimo documento suggerisce intanto di “intraprendere iniziative per stimolare il ministero della Difesa e lo Stato maggiore dell’Esercito a valutare possibili usi militari della caserma Piave in linea con le mutate esigenze epocali del nostro Paese collocato all’interno della Comunità europea, onde scongiurarne il pericolo di chiusura. Ogni ritardo ne dilaterebbe l’agonia”. Ed in conclusione propone, a questo proposito, di costituire una Commissione consiliare speciale, che tratti esclusivamente il caso; di favorire lo svolgimento di un dibattito su questo tema presso il Consiglio regionale dell’Umbria; di promuoverne la costituzione di un Comitato cittadino a sostegno; e di trasmettere il tutto, quanto prima, agli organi competenti.

AUTORE: M.P.