Quella brutta parola ‘respingimento’

l'editoriale

È più che mai acceso il dibattito in Italia sugli immigrati, considerati tutti attraverso il filtro dei clandestini e in particolare dei clandestini che vengono dal Sud. Sono sotto gli occhi di tutti i barconi, sia quelli approdati ed accolti, sia pure in malo modo, sia quelli respinti non ai loro Paesi, che spesso non si sa neppure quali siano, ma nel luogo da dove si sono imbarcati. C’è molta confusione nella conoscenza e nella valutazione della situazione. L’opinione pubblica si forma attraverso la televisione e questa, in gran parte in mano ai detentori del potere, ha facile gioco nel costruire, o quanto meno condizionare la mentalità della gente. Nel mondo mediatico e virtuale la realtà effettiva di come stanno le cose diventa sempre più sfumata, lontana dalla percezione e dalla coscienza delle singole persone: si rischia di perdere il senso del reale e della misura delle cose. Il fenomeno della migrazione ha accompagnato la storia dell’umanità fin dai suoi primordi, e noi italiani ne sappiamo qualcosa. È certamente vero che oggi, tuttavia, il fenomeno è giunto ad un punto critico. Dire questo sembra giustificare come estrema ratio il ricorso al ‘respingimento’, questa parola nuova, gettata sinistramente come un grido di vittoria nel gergo politico, esibita come una carta di credito agli elettori delle prossime votazioni. In verità il termine suggerisce l’immagine di chi dà uno spintone a qualcuno e lo/la butta fuori della barca, magari con un bimbo in braccio. Qualcuno ci scrive con tono di accusa che la parole sono pietre e dobbiamo stare attenti a quello che scriviamo; e siamo d’accordo. Ma sfido chiunque a farsi venire in mente un’immagine diversa. ‘Punto critico’ vuol invece dire che si è fuori della normalità, ma tale constatazione non può dare adito ad una qualsiasi soluzione. Il punto critico in cui oggi versa l’immigrazione è conseguente a quello in cui versano intere popolazioni, di cui i barconi e i clandestini rappresentano la punta dell’iceberg, il tetto visibile di una invisibile montagna di disperazione, che ha per base i confini di tutto il mondo chiamato terzo o quarto o altro. L’Europa e l’Italia, che hanno le loro radici in una cultura ebraica e cristiana che fa dell’accoglienza un punto cardine, non può gettare a mare la propria altissima civiltà e ricadere nelle nebbie in cui si trovò a brancolare quando approvò leggi e sciagure disumane di cui oggi ancora si è costretti, con vergogna, a fare memoria. Solo gli sciocchi possono immaginare che si possa accogliere tutti e sempre e senza regole. Chi pensa questo si trova in un altro punto critico, quello dell’intelligenza umana: il non sapersi fermare a tempo prima di precipitare nel non senso. Per evitare tale precipizio servono leggi pensate e ponderate che non inducano ad agire ak di sotto la soglia dell’umanità e della dignità delle persone. C’è stato anche il dibattito se l’Italia debba pensarsi multiculturale e multireligiosa. È una domanda retorica: l’Italia, l’Europa, la Chiesa, la comunità scientifica, la finanza, sono tutte realtà multiculturali, tant’è vero che sono pensate in chiave di globalizzazione. Su questa base reale bisogna costruire il futuro, con la fatica paziente dell’intelligenza che apre strade di civiltà per tutti, evitando che le diversità siano sorgente di conflittualità e l’egoismo spinga al rifiuto. Ciò si fa costruendo modelli di società che regolano i flussi, accolgono ed educano le persone, costruiscono ponti di dialogo e di collaborazione. La Chiesa in tutto ciò è in prima fila sia con le parole che con i fatti.

AUTORE: Elio Bromuri