L’altare interamente spoglio, senza croce, senza luci, senza tovaglie; le vesti liturgiche del colore del sangue; il silenzio dell’assemblea; la prostrazione dei ministri: così la comunità cristiana inizia la celebrazione della Passione del suo Signore. Tutto penetra dentro di noi e scuote nel profondo il nostro mondo interiore: la forza austera della pietra dell’altare, che lascia le vesti della mensa per mostrare la nudità del sacrificio; le vesti intrise di quel sangue nel quale il Figlio ha inaugurato il mistero pasquale; l’intensità di un silenzio che amplifica ogni gesto e ogni parola; la drammaticità del corpo nella polvere della terra, a mostrare fragilità, penitenza, supplica intensa, consegna totale. L’azione liturgica del Venerdì santo si apre invitandoci a fissare gli occhi del cuore sulla Passione del Signore, evento nel quale si concentra tutta la storia. Di questa celebrazione noi abbiamo bisogno per vivere. Ungaretti, contemplando l’orrore della città di Roma devastata dalla guerra, scrive: “Vedo ora nella notte triste, imparo, / so che l’inferno s’apre sulla terra / su misura di quanto / l’uomo si sottrae, folle, alla purezza della Tua passione”. Il mistero di questo giorno è dominato dalla Croce perché non accada che ci sottraiamo alla purezza della Passione del Signore, senza la quale il dolore del mondo altro non sarebbe che l’inferno sulla terra.
“Dentro” la Passione
Tre sono i momenti di questa celebrazione: la liturgia della Parola; l’adorazione della santa croce; la santa comunione. Non si tratta di stare a guardare da spettatori uno strano genere di rappresentazione della Passione: l’azione celebrativa ci fa partecipi dell’evento della morte di Gesù che si rende presente. Ci viene anzitutto annunciata una Parola che ci permette di fare nostri – scrutandoli “da dentro” – i sentimenti di Gesù nella sua Passione. È per noi una possibilità inaudita: non si tratta di immaginare lo stato d’animo di Gesù, sperando che i nostri cuori pietrificati possano avvertire un qualche coinvolgimento emotivo. La Parola del quarto Canto del Servo sofferente del profeta Isaia ci permette di conoscere da dentro il contenuto preciso dell’obbedienza del Figlio. Per questo ci impressiona la perfetta corrispondenza tra questa Parola e la descrizione della Passione di Gesù, della quale Giovanni ci mostra il senso glorioso. Gesù obbedisce alla Parola del Servo versetto per versetto: per questo si carica delle nostre sofferenze e come agnello condotto al macello non apre la bocca. Torna alla mente ancora il poeta: “Santo, Santo che soffri, / maestro e fratello e Dio che ci sai deboli”. La compagnia che Gesù ci offre con la sua Passione è l’unica vera consolazione capace di dare senso al nostro dolore con il suo amore: “D’un pianto solo mio non piango più, / ecco Ti chiamo, Santo, / Santo, Santo che soffri”. Questa sua solidarietà con noi peccatori, al punto da imparare l’obbedienza da ciò che patì (cfr Eb 5,8), è la novità del sacerdozio di Cristo, che – come annuncia la seconda lettura – è divenuto “causa di salvezza eterna per coloro che gli obbediscono” (Eb 5,9).
Sì, proprio adorazione
L’obbedienza di Gesù è, dunque, la nostra forza, e la Chiesa nel Venerdì santo ne manifesta una piena consapevolezza: per questo la liturgia della Parola si conclude con la preghiera universale nella quale invochiamo l’efficacia del sacrificio di Cristo sulla Chiesa e sul mondo intero. Una esortazione indica l’intenzione per la quale pregare, a questa segue la preghiera silenziosa dell’assemblea che viene raccolta dall’orazione del sacerdote. Il silenzio orante dell’assemblea è il respiro di questa solenne preghiera della Chiesa. Alla liturgia della Parola segue l’adorazione della santa croce. Il Messale ci offre due possibilità: in entrambe abbiamo una progressiva ostensione del “legno della croce al quale fu appeso il Salvatore del mondo”. La croce viene poi offerta all’adorazione di tutti i fedeli. Quando mai ci capita di accostare alla parola “croce” il verbo “adorare”? Tutti gli altri giorni dell’anno usiamo il termine “croce” come sinonimo di disgrazia, sfortuna, maledizione: il Venerdì santo ci insegna ad adorarla, cioè a riconoscere nella nostra croce, in forza della sua, il luogo della glorificazione di Dio in noi. Inginocchiarsi davanti al legno della croce e baciarlo, più che essere espressione della nostra compassione per le sofferenze di Gesù, è l’adorazione stupita della sua compassione per noi, che con il suo amore fa nuove tutte le cose, anche la nostra morte. Ci viene dato di adorare – nelle sue piaghe che lui ha preso da noi – le nostre stesse ferite divenute nel suo corpo manifestazione dell’amore.
Amore che va gustato
In questo giorno, come nel sabato che segue, la Chiesa non celebra l’eucaristia ma tiene fissi gli occhi del cuore sul contenuto stesso dell’eucaristia, vale a dire la croce del Signore. Se il Signore non avesse anticipato nel pane spezzato la consegna della sua morte, noi non avremmo potuto comprenderla. Senza il pane spezzato, la morte in croce di Gesù sarebbe rimasta per noi il fatto aberrante della condanna di un uomo giusto; ma senza la sua morte, il pane spezzato non sarebbe stato altro che un rito vuoto. Per questo abbiamo bisogno di mangiare il suo Corpo eucaristico che la Chiesa custodisce dalla celebrazione della Cena del Signore, per gustare l’amore del suo dono per noi. L’azione liturgica si conclude con un’orazione sul popolo carica di speranza: “Scenda, o Padre, la tua benedizione su questo popolo, che ha commemorato la morte del tuo Figlio nella speranza di risorgere con lui; venga il perdono e la consolazione, si accresca la fede, si rafforzi la certezza della redenzione eterna”. L’assemblea si scioglie in silenzio, l’altare torna a essere spoglio in attesa che nella Veglia pasquale l’acclamazione alla luce di Cristo rompa il silenzio e l’altare venga ornato come tavola del banchetto per la festa della risurrezione del Signore, nel quale tutti noi viviamo eternamente.