Sentinelle per i nostri fratelli

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XXIII Domenica del tempo ordinario - anno A

La liturgia di questa domenica si apre con un termine insolito nel contesto liturgico: “sentinella”. È come uno squillo di tromba che mette in moto la nostra curiosità. La sentinella e il profeta. A prima vista sembrano due grandezze distanti. Eppure Dio dice al profeta Ezechiele: “Ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele” (Ez 33,1). A somiglianza della sentinella il profeta ha il compito di avvertire. Chi? Il malvagio, che è sovrastato da un pericolo mortale, a causa della sua malvagità. Di fronte alla prima lettura, come del resto accade ogni domenica, c’è la lettura evangelica, compimento della profezia di Ezechiele.

Vengono in mente le parole di sant’Agostino: “Il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico e l’Antico Testamento si manifesta pienamente nel Nuovo”. Abbiamo ascoltato le parole di Gesù: “Se tuo fratello commette una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo” (Mt 18,15). Il fratello di cui si parla è evidentemente un membro della comunità cristiana, verso cui ognuno di noi ha lo stesso obbligo che ebbe il profeta Ezechiele. L’insegnamento di Gesù è rivolto a una comunità di fratelli. Se pensiamo di poterlo estendere all’intera società civile, esso appare del tutto impraticabile. Immaginate quale sarebbe la reazione di un signore che incontrate per strada, noto evasore fiscale, se lo ammonite di fare il suo dovere di cittadino? Nel migliore dei casi vi direbbe: “Lei come si permette? Io ho la mia coscienza. Lei pensi alla sua”, e simili.

La nostra è una società profondamente individualista, dove ognuno si regola secondo i propri punti di vista, in modo integralmente autoreferenziale, senza accettare lezioni morali da nessuno. Vedi anche le frequenti esternazioni di alcuni nostri politici. Un tempo la comunità cristiana coincideva in qualche modo con quella civile, con tutti i limiti e le contraddizioni che sappiamo. Allora era concepibile che uno si occupasse della salvezza dell’altro. Quei tempi non esistono più. La realtà storica della comunità cristiana però rimane intatta; da lì potrebbe avere inizio una nuova forma di civiltà, in cui l’altro non è più un estraneo, ma un fratello di cui ti devi prendere pensiero.

Ognuno di noi è chiamato a custodire suo fratello. Solo così si capisce l’insegnamento di Gesù, che non si pone su un piano moralistico, ma esistenziale: se tuo fratello è evidentemente in errore, rischia la sua vita e tu non puoi ignorarlo, perché essa ti è data in custodia. Purtroppo la mentalità individualista del mondo ha contagiato dall’interno anche la comunità cristiana. Si tratta di fare un salto di qualità: passare da una concezione individualistica della vita a una visione comunitaria. Ricordiamo la Parola della Genesi: “Dov’è Abele tuo fratello? – Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gn 4,9) Quella risposta tentava di coprire un assassinio.

C’è un’altra domanda che ci sonnecchia dentro: chi mi autorizza a giudicare mio fratello? Ricordo anche quell’altra parola di Gesù: “Perché cerchi la pagliuzza nell’occhio di tuo fratello, tu che hai una trave nel tuo” (Mt 7,3). E anche: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Gv 8,7). La lettura di Ezechiele suggerisce la direzione della risposta: “Se senti una parola della mia bocca, avvertili da parte mia” (33,7). Non ci paia strana la possibilità di udire una Parola del Signore. Dio parla in molti modi. Se ascoltiamo la nostra coscienza, possiamo udirla. Essa ci chiede di domandarci anzitutto se ciò che vorremmo dire al fratello viene da Dio o dalle nostre insofferenze verso di lui. Lo facciamo per aiutare lui/lei, o per innalzare noi stessi ai suoi occhi? Se siamo sinceri con noi stessi, Dio lo farà capire. Conviene riflettere anche sulle altre parole che Dio dice al profeta “Se io dico al malvagio: ‘Malvagio, tu morirai’, e tu non parli, perché il malvagio desista dalla sua condotta, il malvagio morirà per la sua iniquità, ma della sua morte domanderò conto a te” (Ez 33,1).

Non ci possiamo sottrarre al confronto con questa Parola severa. Essa ci riguarda, perché Dio, come si è detto, ci ha fatto custodi della vita del fratello. Tuttavia per dichiarare al fratello il suo errore, è necessario molto amore per lui, molta umiltà e anche la consapevolezza che si può diventare oggetto di antipatia e talvolta di odio da parte sua. Quando ci mettono dinanzi il nostro errore, non tendiamo certo a gratificare chi lo fa. Per questo, in genere, ce ne asteniamo. Per paura. Così la paura continua a essere la protagonista delle nostre opache relazioni interpersonali. Giovanni Battista, che abbiamo ripetutamente incontrato nelle liturgie domenicali, non ebbe paura di dichiarare la verità neanche di fronte al suo re, che pure rispettava. La verità gli fu più cara della propria vita.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all'Ita di Assisi