Storie infami

Molte sono le buone notizie che possono convincerci che il mondo va avanti e si fanno anche passi positivi verso la pace e l’integrazione dei popoli. Recentemente sul fronte dell’immigrazione un grande esperto, mons. Petris, ha detto che “il territorio si apre”, considerando le mille iniziative che si svolgono per accogliere e aiutare immigrati senza fare discriminazione di fedi e culture. Non c’è parrocchia o convento che non abbia la sua dimensione, strutturata o meno, di carità concreta ed efficace. In un orizzonte più vasto si sussurra timidamente che progressi, nonostante terrorismo e guerra, si vadano facendo strada con accenni di democrazia e di sviluppo sociale, come in Afghanistan, dopo una dittatura dei talebani. E tuttavia la nostra attenzione è rivolta prevalentemente all’Iraq ed è catturata dalle barbare esecuzioni che non si placano: cinque sgozzati in tre giorni. Vediamo anche la devastazione e l’orrore di centri abitati colpiti da bombardamenti che uccidono decine di vittime innocenti. Tutto questo ci pone in una situazione di continua tensione e ci costringe a rifare sempre da capo i conti sul bene e sul male, tentati dal pensare il peggio e sorretti, per chi l’ha in dono, dalla speranza del meglio. Sostenere in sé e negli altri le ragioni della speranza è uno dei compiti del credente. Ma c’è un altro dato da considerare: le storie infami che avvengono vicino a noi e passano quasi inosservate. Mi riferisco a due vicende che ci toccano da vicino. La prima è quella di Ayad Anwar Wali, 44 anni, da venti in Italia, ben inserito nei processi produttivi del Nordest ricco, tanto da diventare ambasciatore di quell’industria italiana in molti paesi arabi. In una viaggio in Iraq è stato preso come ostaggio e non c’è stato nulla da fare, o come dice il fratello ed altri suoi amici, non si è fatto nulla per tirarlo fuori da quella trappola. Una storia opposta a quella delle due Simona, conclusa, grazie a Dio, con esito positivo e trionfo. Ayad è stato fucilato, come traditore amico dell’odiato Occidente. Poteva e doveva, in una logica semplicemente umana e di buon senso comune, essere considerato una persona ‘ponte’, tramite tra le due nazioni, le due culture, un commerciante che diffondeva una opportunità di scambio, di fiducia reciproca e, in ultima analisi, di pace. Non vendeva armi, ma mobili. L’altra storia infame è quella dell’operaio abbandonato agonizzante sul ciglio di una strada a Ercolano (Napoli). Si chiamava Francesco Iacomino, 33 anni. Lavorava, a quanto è stato detto, in un cantiere e non essendo in regola dopo la sua caduta da 15 metri non è stato portato in ospedale ma semplicemente scaricato come un sacco di rifiuti, coperto di omertà. Un fattaccio del genere è accaduto anche nella nostra regione. Noi l’abbiamo raccontato in prima pagina con un incisivo commento di mons. Chiaretti (La Voce n. 31 del 5 settembre scorso). A tale proposito siamo stati rimproverati da un lettore di non aver segnalato che non erano stati degli umbri ad abbandonare quell’operaio marocchino; ma che conta? Due storie prese al volo tra le tante tragiche notizie che ci vengono gettate addosso continuamente nei giornali e telegiornali, che meritano una più rigorosa riflessione e un esame di coscienza perché denotano un sintomo negativo per la nostra cosiddetta civiltà: la scomparsa della compassione. Qualcosa di ciò che denunciamo per tristi vicende lontane, si ritrova in qualche modo in fatti a noi vicini, questi ed altri, che infangano e infamano la nostra convivenza civile. Vi è un reale rischio che la barbarie si diffonda per contagio in modo subdolo e dilaghi.

AUTORE: Elio Bromuri