Teniamo Dio al di fuori dei conflitti

Alcuni giorni fa in un’intervista alla televisione Amos Luzzatto, presidente della Comunità ebraica italiana, ha espresso l’idea che non si debbano “teologizzare i conflitti”, perché ciò comporterebbe il rischio di “depoliticizzarli”. In altri termini, voleva ricondurre il problema della guerra tra palestinesi e israeliani (“tra israeliani e palestinesi”) alla sua dimensione politica senza tirare in ballo la fede religiosa. Un richiamo giusto, che vale per tutte le guerre combattute in nome di Dio. Tenere Dio fuori dalla nostra triste e tragica storia. Alla radice della lotta tra persone e tra popoli c’è il dato biopsicologico dell’aggressività, quella che prima di ogni determinazione religiosa, ha portato al fratricidio originario, padre e archetipo di ogni omicidio. Di che religione era Caino? L’aggressività si può scatenare per motivi economici, territoriali, ideologici, politici. Molte sono le cause e le componenti della violenza in tutte le sue forme. Non è il caso di fare un trattato sull’argomento. Anche nel caso della Palestina è importante il richiamo di Luzzatto di ragionare in maniera “laica” e realistica puntando sugli aspetti “politici” della questione che sono territoriali, storici, economici. Ma è pur vero che ci troviamo a ragionare e a soffrire in e per quella che viene chiamata “Terra santa”. Non solo dai cristiani che l’hanno amata, sognata, esaltata più di ogni altro popolo (ad imitazione di Gesù che ha pianto per essa), ma anche da ebrei e musulmani. E’ un’operazione “teologicizzante” affermare che la terra può diventare un mito, un idolo, un vitello d’oro, quando per altri è semplicemente un luogo dove abitare? Ed è teologizzare dire che i fatti compiuti dall’una e dall’altra parte (terrorismo e guerra di occupazione e di rappresaglia) sono in contrasto con la fede professata dagli uni e dagli altri almeno ufficialmente? Non è facile per dei cristiani pensare a quanto sta avvenendo senza avere tristi pensieri anche religiosi e non sentirsi invitati alla preghiera. Betlemme, non è l’infima tra le città della Giudea e non è l’ultimo tra i “luoghi dello spirito” dove un cristiano va a rifugiarsi in cerca di pace. I politici cerchino in tutti i modi di impedire la carneficina e la profanazione dei luoghi santi, fermando le mani che uccidono, ma non riusciranno a fare la pace e a riconciliare i due popoli. Questo potrà avvenire solo se i credenti delle tre religioni monoteistiche là professate in nome di Abramo, entrando nell’ordine di pensiero “teologico”, con umiltà come in un tempio, riusciranno a ritrovare le radici di una fraternità non eludibile: là noi tutti siamo nati. E se riusciranno, i credenti, a costruire una cultura ed un umanesimo, una cultura e una civiltà, che siano permeati dai valori positivi e pacifici delle tre religioni, lasciando da parte le vecchie storie mitizzate del Dio degli eserciti, le epopee dei “cavalli e cavalieri” gettati nel mare e coperti dal fango e i poemi della liberazione in senso geografico, sociale e politico, con iniziative simili a quelle proposte dalla Chiesa cattolica alle altre Chiese e religioni, dal Concilio Vaticano II a questa parte, e in modo spettacolare e suggestivo dai gesti di Giovanni Paolo II, (da ultimo la convocazione ad Assisi delle Chiese e delle religioni per la pace, il 24 gennaio scorso). Gli eserciti, infatti, si possono disarmare con la forza di altri eserciti più potenti o per ragioni di utilità o per sfuggire alla fame o alla morte, ma i cuori così non solo non si disarmano, ma si caricano di un odio ancora più profondo che esploderà a tempo opportuno. La politica non potrà mai essere sufficientemente efficace se gli uomini non saranno sostenuti nel loro cammino dalla “teologia”, un uso pacifico della teologia, ricorrendo a Colui che ha pensieri di pace e non di afflizione.

AUTORE: Elio Bromuri