Una firma per riprenderci il giorno della Festa

Confesercenti umbra guida la raccolta di firme contro una liberalizzazione selvaggia... e inutile

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Domenica negozi aperti? Meglio di no!

“Domenica sempre aperto? Ma anche no!”: è quanto mai esplicito il messaggio lanciato da Confesercenti Umbria martedì mattina nel corso di una conferenza per presentare “Libera la domenica”, campagna di raccolta firme per la presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare per cambiare la normativa sulle liberalizzazioni e riportare nell’ambito delle competenze delle Regioni le decisioni sulle aperture domenicali degli esercizi commerciali. L’iniziativa è partita a livello nazionale il 13 novembre scorso, quando il comitato “Libera la domenica” ha depositato presso la corte di Cassazione la proposta di legge con l’obiettivo di raccogliere 50.000 firme entro sei mesi. Ora la campagna è arrivata anche in Umbria – con il sostegno della Conferenza episcopale italiana, di Federstrade e dei sindacati – al fine di raggiungere circa 2.500 firme grazie a stand allestiti in tutto il territorio regionale. “Crediamo fortemente in questa campagna – ha spiegato Francesco Filippetti, presidente di Confesercenti Umbria – per due motivi fondamentali. Il primo è di tipo culturale e sociale: dobbiamo salvaguardare il concetto di riposo e famiglia. Con le liberalizzazioni stiamo stravolgendo il nostro modo di vivere e rinunciando a valori fondanti per la nostra società. Il secondo motivo – ha sottolineato poi Filippetti – è di tipo economico: le liberalizzazioni non hanno in alcun modo aiutato l’economia. Tutt’altro: il Pil è sceso e i dati occupazionali sono allarmanti. Basti pensare che, secondo dati Infocamere, dal 2007 ad oggi sono 10.201 le attività del commercio all’ingrosso, al dettaglio e turismo che hanno chiuso. Le nuove aperture sono state invece 7.517, ma si tratta di esercizi che, secondo dati Istat, quasi nella metà dei casi (42%) non sopravvivono oltre il secondo anno di attività”. Così com’è, quindi, il sistema delle liberalizzazioni non funziona. Occorre, perciò – sostengono da Confesercenti – ridare la competenza alle Regioni capaci, di concerto con le Amministrazioni locali, di programmare e regolamentare le aperture domenicali, scegliendo, di volta in volta chi, quando e dove, ed evitando il rischio di un’inflazione dell’offerta. C’è poi, parallelamente, la volontà di salvaguardare la domenica nel suo significato sociale e simbolico. “Ci sono valori superiori a quello della rendita economica e del profitto – ha sottolineato mons. Elio Bromuri che ha riportato il pensiero e l’adesione della Cei al progetto -, come il rispetto del riposo e della famiglia. La domenica è il momento riservato alla gratuità, agli affetti, e non all’utile. Altrimenti il rischio è quello di una profonda deriva materialistica e consumistica”.

Non una grande opportunità ma un autogol

I commercianti raccontano i disagi dovuti alla “costrizione” di un’apertura domenicale che non giova a nessuno

Uno dei tanti centri commerciali che sono perennemente aperti, anche la domenica

Doveva essere uno strumento di crescita e lavoro. A distanza di qualche mese, però, il “miracolo” non c’è stato. Le liberalizzazioni non hanno creato i vantaggi sperati. A dirlo sono gli stessi titolari di attività che, dal centro alla periferia, accusano le nuove norme su orari e aperture domenicali come un’arma a doppio taglio per salute, famiglia e profitto.

La loro posizione potrebbe essere riassunta dalle parole di Marco Bindocci – commerciante, vice presidente della Confesercenti di Perugia e membro della Consulta per il centro storico, nel corso della conferenza di presentazione dell’iniziativa “Libera la domenica”. “Per mia esperienza diretta – ha raccontato – neanche la grande distribuzione, che pure ha sfruttato maggiormente l’opportunità delle aperture domenicali, sta avendo i vantaggi sperati. Non parliamo della piccola, costretta ad aprire per combattere la concorrenza, senza però ottenere utile. C’è infatti un’inflazione di offerta con un aumento notevole dei costi che però, proporzionalmente, non produce profitto. Insomma, le liberalizzazioni sono state un autogol che, tra le altre cose, sta uccidendo, sotto la pressione dei centri commerciali, ogni tentativo di rivitalizzazione del centro storico”.

Gli fanno eco altri commercianti dell’acropoli. “La concorrenza dei centri commerciali – spiegano – è spietata. Prima puntavamo ad organizzare iniziative quando erano chiusi, per canalizzare la gente il più possibile, ma ora non possiamo più farlo. Aprire di propria iniziativa, come singolo negozio, non ha senso qui in centro perché non viene nessuno, soprattutto di domenica quando gli uffici sono chiusi. Per questo continuiamo a fare rete nei vari borghi e quartieri, grazie anche alle tante associazioni di residenti e commercianti che si sono formate in questi mesi, e ad organizzare iniziative in alcuni weekend”.

In periferia, invece, fuori dai centri commerciali, aprire di domenica è una vera rarità. “Non mi conviene – spiega un commerciante di Madonna Alta – perché tra la luce e lo stipendio del dipendente, praticamente il profitto è nullo. I clienti poi non vengono certo qui di domenica per un unico negozio. Preferiscono farsi un giro nei centri commerciali dove trovano tutto quello che gli serve”. C’è poi chi non apre per scelta. “Questa è un’attività a conduzione familiare – racconta una commerciante di Castel del Piano -. Siamo io e mio marito. Già lavoriamo 12 ore al giorno, se poi non facciamo festa nemmeno la domenica i figli quando li vediamo? E la salute chi ce la restituisce, una volta persa?”.

AUTORE: Laura Lana