Il dovere della riconoscenza

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Oscar Battaglia XXVIII Domenica del tempo ordinario - anno C

Riconoscenza, gratitudine, ringraziamento sono parole sempre più in disuso e minacciano di scomparire dal vocabolario dei nostri giovani, ai quali tutto è dovuto. La nostra è una società dei diritti sempre più rivendicati, ma non una società dei doveri praticati. Per esprimere riconoscenza ci vuole umiltà, consapevolezza di aver ricevuto un beneficio e un dono, qualcosa che non ci era dovuto. La gratitudine nei confronti di Dio è sempre agganciata alla fede. Chi non crede in Dio non si accorge dei benefici che ogni giorno riceve, a cominciare dal dono della vita e del mondo che ci circonda. La gratitudine nasce dalla meraviglia e dalla gioia del bello che ci viene donato. E Dio sta all’origine di tutto il bello e il bene del mondo.

All’inizio della sezione a cui appartiene il nostro racconto, sta la richiesta degli apostoli: “Signore, aumenta la nostra fede” (17,5). Più abbiamo fede, più vediamo quanto dobbiamo a Dio nostro Padre. Luca ci riporta oggi un racconto di guarigione collettiva. Per trovare la narrazione di un altro miracolo dobbiamo risalire tre capitoli indietro, fino alla guarigione dell’idropico nella casa di un fariseo (14,1-6). In mezzo a questi due miracoli c’è una lunga serie di insegnamenti, tra i quali ben sette parabole. Tuttavia l’evangelista non vuole attirare la nostra attenzione sul fatto assolutamente straordinario della guarigione di dieci lebbrosi, ma piuttosto sull’atteggiamento dei guariti. Qui si appunta la triste costatazione di Gesù, con le parole rassicuranti rivolte al samaritano, unico dei dieci tornato a ringraziare.

Il racconto richiama da vicino la guarigione di Naaman il siro operato dal profeta Eliseo (2 Re 5,1-19). Anche Naaman era affetto dalla lebbra, era uno straniero, fu guarito da lontano dal profeta e tornò indietro a ringraziare. Gesù fece riferimento a questo episodio nella sinagoga di Nazareth, all’inizio della sua predicazione, per sottolineare la diversità di atteggiamento dei pagani nei confronti dei giudei suoi compaesani. L’evangelista riprende lo stesso paragone, trasferendolo nell’ambiente ecclesiale del suo tempo, per indicare l’ingratitudine dei giudei, che avevano rifiutato Cristo, in contrapposizione ai pagani che lo avevano accolto invece con gratitudine. Per questo nel suo Vangelo tende a rivalutare i samaritani, ritenuti pagani e stranieri dagli ebrei. Comunque, sembra che la comune malattia abbia annullato le distanze tra giudei e samaritani, perché nel racconto li troviamo insieme chiedere pietà a Gesù, che sta attraversando la frontiera tra la Samaria e la Galilea. Dieci lebbrosi, accomunati dalla stessa triste sorte, vanno incontro a Gesù in un villaggio di confine, si fermano a distanza, come comandava la legge, e gridano: “Gesù maestro, abbi pietà di noi!”.

La lebbra era una malattia diffusa nell’ambiente palestinese del tempo, dove l’igiene lasciava molto a desiderare e dove la gente viveva accalcata in piccole case di fango senz’aria. La legislazione mosaica, intenta ad arginare e circoscrivere il più possibile l’infezione, era molto severa nei confronti dei lebbrosi. Erano cacciati inesorabilmente dalle loro famiglie, vivevano in aperta campagna fuori dell’abitato e non potevano aver contatti diretti con i sani, ai quali era proibito perfino toccarli. Su di loro gravava poi l’impurità legale, che li escludeva dal culto e dalla società religiosa, in una specie di scomunica. Se per caso fossero guariti dalla malattia, dovevano presentarsi al sacerdote del loro villaggio, che constatava la guarigione e rilasciava la dichiarazione di cessazione dell’impurità, reintegrando il guarito nelle società civile e religiosa.

Tutti e dieci, fidandosi dell’assicurazione di Gesù, corrono dai rispettivi sacerdoti e per strada si ritrovano miracolosamente guariti. Uno di loro torna subito indietro. Evidentemente pensa che sia più urgente ringraziare che farsi reintegrare nella società, in modo da poter rientrare subito in famiglia; la sua famiglia può aspettare, il benefattore va subito ringraziato, perché è troppo grande quello che ha fatto per lui. Gli altri vanno forse a Gerusalemme, prigionieri della loro formalismo e del loro legalismo. È evidente la fede riconoscente di quest’uomo, che torna gridando le lodi di Dio e gettandosi ai piedi di Gesù in sincera adorazione. Luca, che ha creato un pathos narrativo, lasciando in sospeso l’identificazione del guarito, ci rivela ora che era un samaritano, come l’uomo compassionevole della parabola già raccontata (10,29-37). Lo straniero diventa membro della famiglia di Dio, scavalcando i giudei, primi chiamati.

La prima reazione di Gesù è condensata in tre domande dense di amara delusione: Tutti dieci sono stati guariti e hanno sperimentato la sua bontà misericordiosa; uno solo è tornato a ringraziare; e questi è uno straniero. Siamo nel centro del racconto, qui è l’insegnamento essenziale che scaturisce dal miracolo. La guarigione dei lebbrosi era il segno della realtà nuova portata da Cristo, e che i nove non hanno saputo percepire. Egli è venuto a guarire la lebbra umana del peccato, che è la vera malattia che rende impuri davanti a Dio. Dietro la purificazione dalla malattia c’è la purificazione del cuore offerta a tutti. Per questo Gesù si è fatto lebbroso tra noi, assumendo le nostre infermità e i nostri dolori. Il lamento di Gesù è il lamento stesso di Dio di fronte all’ingratitudine umana e al rifiuto della sua salvezza. Eppure ha messo a disposizione di tutti l’eucaristia, cioè il “ringraziamento”, l’adorazione e lode più grandi che si possano mai tributare a lui.

La conclusione del racconto mostra gli effetti della gratitudine, descritti con una frase sintetica quanto meravigliosa: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato”. È ripetuta da Gesù altre due volte a chi è sorpreso in atteggiamento di adorazione: all’emorroissa guarita e al pubblicano della parabola omonima. Si tratta di una salvezza totale che abbraccia tutto l’uomo; è una guarigione corporale e spirituale insieme, una realtà presente e futura che va dall’oggi fino alla risurrezione finale. È lo sbocco naturale della comunione con Dio Padre che ci accoglier nella sua famiglia.

AUTORE: Oscar Battaglia