Il peccato non ha l’ultima parola

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Giulio Michelini V Domenica di Quaresima - anno C

Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui”. Questa frase del vangelo secondo Giovanni (3,17), spiega bene il brano della donna adultera. Nel nostro racconto i farisei e gli scribi si avvicinano a Gesù per metterlo finalmente alla prova su un caso “concreto”. Dobbiamo immaginare che nel quarto vangelo ormai siamo prossimi alla fine del ministero di Gesù, e i gruppi e i movimenti del giudaismo di allora devono essere venuti a conoscenza del suo insegnamento sul regno di Dio incentrato sull’apertura ai peccatori. Gesù ha già mangiato con loro, ha già detto all’infermo da quasi quarant’anni “Non peccare più” (Gv 5,14), ed ecco che ora viene interpellato su un caso di flagrante peccato, e tanto più grave perché riguarda un peccato sociale, l’adulterio.

I farisei. Ai farisei non sembra interessare quella donna che portano al Rabbi, non sono preoccupati per la sua salvezza, ma per il peccato. Si concentrano sulla questione legale, che pure deve essere salvaguardata perché importante: la Legge dice che è peccato l’adulterio, e alla Legge nessuno può derogare. Eppure Gesù agisce in modo diverso dai farisei e dagli scribi del suo tempo. Forse lui non è tenuto a rispettare la Legge antica? Gesù e la Legge. È fuorviante la lettura che vuole vedere in questa pagina una abolizione della Legge da parte di Gesù. Anche il Catechismo della Chiesa cattolica (1968) ricorda che “la Legge evangelica dà compimento ai comandamenti della Legge.

Il Discorso del Signore sulla montagna, lungi dall’abolire o dal togliere valore alle prescrizioni morali della Legge antica, ne svela le virtualità nascoste e ne fa scaturire nuove esigenze: ne mette in luce tutta la verità divina e umana. Esso non aggiunge nuovi precetti esteriori, ma arriva a riformare la radice delle azioni, il cuore, là dove l’uomo sceglie tra il puro e l’impuro, dove si sviluppano la fede, la speranza e la carità e, con queste, le altre virtù. Così il Vangelo porta la legge alla sua pienezza mediante l’imitazione della perfezione del Padre celeste, il perdono dei nemici e la preghiera per i persecutori, sull’esempio della magnanimità divina”.

Questo commento del Catechismo riferito al discorso della montagna vale anche per il nostro brano. Gesù non sta scrivendo una “nuova legge”: applica come si deve quella data da Mosè, interpretandola perfettamente, e facendone emergere il “cuore”, che è comunque e sempre il bene del peccatore. La peccatrice. A Gesù non interessa solo la norma, che comunque rispetta e che mostra di saper interpretare meglio e anche in modo più radicale di quanto non facciano i farisei. A lui preme soprattutto il destino della peccatrice; non guarda solo al peccato, ma a chi l’ha commesso. Il peccato per Gesù non ha l’ultima parola. Mentre per noi è spontaneo dire a chi ha sbagliato: “Non c’è più niente da fare, mi hai deluso, non ti perdonerò mai”, Gesù dà un’altra possibilità: “non peccare più”. Facciamo fatica ad avere lo stesso sguardo…

Pensiamo a quanto accade nell’ambito delle relazioni familiari e – a livello ancor più macroscopico – anche nella nostra società. Basti ricordare che il nostro paese non è riuscito a dare un segno di “clemenza” ai carcerati, secondo quanto ha inutilmente chiesto Giovanni Paolo II sin dal grande Giubileo del 2000, anche con la visita al Parlamento italiano del 14 novembre 2002: “Senza compromettere la necessaria tutela della sicurezza dei cittadini, merita attenzione la situazione delle carceri, nelle quali i detenuti vivono spesso in condizioni di penoso sovraffollamento. Un segno di clemenza verso di loro mediante una riduzione della pena costituirebbe una chiara manifestazione di sensibilità, che non mancherebbe di stimolarne l’impegno di personale ricupero in vista di un positivo reinserimento nella società”.

Gesù non condanna nessuno, perché Dio Padre l’ha mandato – come dicevamo all’inizio, non per giudicare e castigare, ma per dire che Dio è più grande di ogni nostro peccato. Con tale atteggiamento nei confronti dei peccatori, egli opera una liberazione che non ha niente a che fare con il permissivismo: infatti sa bene che il peccato conduce alla morte, come l’adulterio porta alla lapidazione. Ma indica un’altra strada, dona una nuova vita: “neanch’io ti condanno”. L’adultera torna a casa felice, risanata, e forse sorridente, come quel Manfredi (ma con lui tutti noi) che può ben dire a Dante: “Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei” (Purgatorio, canto terzo).

AUTORE: Giulio Michelini