La vigna deve portare frutto

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XXVII Domenica del tempo ordinario - anno A

Ancora la Vigna. Domenica scorsa appariva come un simbolo ancora un po’ secondario, oggi domina l’intera liturgia. Fin dalla prima lettura, Isaia lo annuncia con grande chiarezza: “La vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele” (Is 5,7). Gli studiosi ritengono che il profeta si sia ispirato ad un canto popolare in voga, modificato e trasposto allegoricamente a significare la non collaborazione del popolo al progetto del Signore. Subito dopo, il Salmo responsoriale riprende la frase del profeta e ne fa il ritornello.

Le quattro strofe, parti del Salmo 79, riassumono, nell’allegoria della Vigna, la storia dei rapporti di Israele con il suo Dio, ed elevano una preghiera perché, dopo il giusto tempo di punizione, Egli torni ad essere benevolo con loro.L’uditorio di Gesù è lo stesso di domenica scorsa: le autorità del Tempio. Nella prima parte della parabola, l’attore principale è “l’uomo padrone di casa”, il quale organizza tre spedizioni di suoi servitori a ritirare il frutto dovutogli; essi ricevono tre tipi di maltrattamenti da parte degli affittuari della vigna (v. 36).

Nella seconda parte ad agire sono i vignaioli, che, a somiglianza del padrone, riflettono prima di prendere la decisione definitiva: manderò mio figlio, pensa il padre; uccideremo il figlio, decidono i vignaioli. La parabola si chiude con una domanda di Gesù, per la quale gli interpellati trovano una risposta corretta (41). In ultimo si accorgeranno di essersi dati la zappa sui piedi, quando capiscono che Gesù aveva parlato di loro (45-46).La vicenda narrata diventa più comprensibile se si considerano le condizioni economiche e sociali della Palestina del tempo di Gesù, dove le grandi proprietà terriere appartenevano spesso a proprietari stranieri, i quali davano in affitto le loro tenute a gruppi organizzati di fittavoli. Secondo una diffusa forma di locazione, andava consegnata al padrone una determinata porzione del raccolto.

Il padrone da parte sua si garantiva il proprio diritto, inviando suoi fiduciari. È facile notare le differenze tra la parabola e la prima lettura: secondo Isaia la vigna non dà frutto buono, ma solo uva selvatica, per colpa dei vignaioli. Nella parabola i frutti ci sono, ma sono trattenuti ingiustamente dai fittavoli, dietro ai quali si celano i capi del popolo. Nei servitori inviati a riscuotere si possono riconoscere i profeti, sempre inascoltati, perseguitati e uccisi. L’ultimo tentativo del padrone è l’invio del figlio, nella speranza che, almeno lui, sia rispettato. Invece è proprio questo arrivo che induce i fittavoli a complottare per farlo fuori e impossessarsi della vigna. Il figlio, inviato per ultimo, simboleggia con chiarezza il Messia, Gesù, il cui destino è collegato con quello dei profeti.

Il Cristo però, quale figlio ed erede, è superiore ai profeti. Il piano scellerato viene attuato come una vera e propria esecuzione, da eseguirsi davanti alle mura della città. La sua uccisione è descritta da Matteo in modo da lasciarne trasparire il significato allegorico: “Lo presero, lo buttarono fuori della vigna e lo uccisero” (v. 39) Anche di Gesù si narrerà che “fu preso” dalle guardie inviate dai capi del popolo, “fu condotto fuori della città” dai militari romani, e “fu crocifisso”.La domanda di Gesù ai capi, che conclude la parabola, ottiene – come si è detto – una risposta corretta; essi però ignoravano che stavano accusando se stessi. Anche Davide aveva dato al profeta Natan una risposta corretta, senza avere capito però che il colpevole era proprio lui (1 Sam 12,1 ss).

Senza saperlo, le autorità profetizzano la loro prossima distruzione, la distruzione di Gerusalemme.La consegna della vigna ad altri vignaioli sarà chiarita nei versetti successivi: “Il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare” (v. 43). Chi è questo “altro popolo” a cui si riferisce? È quello che sarà formato da giudei e pagani, pacificati tra loro e riuniti dal sangue versato dal Figlio. Concretamente è la Chiesa, popolo di Dio riunito nel nome della Trinità. Il regno di Dio, consegnato ad un altro popolo, va inteso come una realtà presente; era stato affidato all’antico Israele, perché portasse frutto. Questo non è avvenuto.

Ora è affidato al nuovo popolo di Dio, che a sua volta potrà perderlo, se non porta frutti. La condizione per continuare ad essere consegnatari del Regno è il portare frutto. Si impone una domanda cruciale: noi, che siamo la Chiesa, stiamo portando frutti per il mondo? Quali? Non conviene illudersi di poter partecipare all’eredità di Dio a poco prezzo, seduti sulle nostre pretese sicurezze. Pur nella certezza che “le porte degli inferi non prevarranno” (Mt 16,18), non dobbiamo dimenticare che l’avvenire della storia è solo nel potere di Dio.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all'Ita di Assisi