Bisogna obbedire a Dio

Commento alla liturgia della Domenica a cura di mons. Giuseppe Chiaretti III Domenica di Pasqua - anno C

Detta così, bruscamente: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini”, sembra che questa affermazione di Pietro e dei suoi amici al Sommo Sacerdote voglia dire che “agli uomini non si deve di per sé obbedire”. Invece non è così. Gesù stesso a Pilato, e gli apostoli in più occasioni, dicono chiaramente che anche agli uomini investiti di autorità si deve obbedienza e rispetto, ovviamente nell’ambito della legge e nella sfera di propria competenza: Oboedite praepositis vestris, obbedite ai vostri capi (Eb 13,17), e Pietro aggiunge: etiam discolis, anche ai prepotenti (I Pietro 2,18). Dinanzi alla Verità però non c’è autorità umana che tenga. La menzogna è propria del diavolo, che è “menzognero sin dalle origini e padre della menzogna” (Gv 8,44). Cristo invece è per sua stessa autodefinizione “via, verità, vita” (Gv 14,6), l’uomo nuovo “pieno di grazia e di verità (Gv 1,14).

La vita cristiana deve svolgersi sempre nell’ambito della verità e dell’amore. Talvolta ne potrà derivare persecuzione sino al martirio, come fu per Gesù e per gli stessi apostoli, ai quali, dopo quella loro risposta che fece “infuriare il sinedrio”, toccò come ammonimento la fustigazione. E tuttavia “se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù” (Atti 5,41). Urge però recuperare il valore anche civico della verità, che è uno dei pilastri della civitas insieme alla giustizia, per sconfiggere il demone della menzogna e dell’ipocrisia, che sta avvelenando tutti i nostri rapporti sociali e creando sfiducia, non senza ragione, verso le persone e verso le stesse istituzioni. Dinanzi all’evento della risurrezione di Gesù, in Cielo, come ci assicura il veggente di Patmos, l’apostolo Giovanni, si fa una festa incredibile, cui partecipano “tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare, e tutte le cose ivi contenute”: una festa cosmica perché tale è la redenzione operata da Gesù, conclusa con il trionfo.

Infatti “tutta la creazione geme e soffre le doglie del parto”, ma sarà “anch’essa liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rom 8,22-23). Nel Cielo si intona il “peana”, e cioè l’inno del trionfatore, che Giovanni vide e intese cantare da “miriadi di miriadi e migliaia di migliaia” di coristi (Ap 5,11). La resurrezione di Gesù non interessa solo i credenti – ci dice autorevolmente il Concilio – ma tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo infatti è morto per tutti, e “la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina: dobbiamo perciò ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale” (GS 22).

Ora, però, è ancora il tempo della Chiesa sulla terra; Gesù risorto la segue con cura e le dà l’avvio. È la terza volta che il Signore si fa vedere da risuscitato dopo l’incontro con la Maddalena e con gli apostoli nel cenacolo. Questa volta si incontra con alcuni dei Dodici durante il loro lavoro di pescatori sul “mare” di Tiberiade. Ma la pesca è di nuovo a vuoto, e Gesù, comparendo di primo mattino sulla riva, ancora una volta dice loro di gettare nuovamente le reti “dalla parte destra della barca”: questa volta presero 153 grossi pesci! Nella logica del Vangelo questo numero ha una sua funzione simbolica: è in rapporto con l’invio degli apostoli in missione presso tutti i popoli che abitano l’ecumene, essendo il 153 il numero di tutte le specie di pesci allora conosciuti. È la conferma dell’invio “in tutto il mondo per proclamare il Vangelo a ogni creatura” (Mc 16,17) e fare una pesca di uomini abbondante come quella dei pesci. Un dovere, quello dell’evangelizzazione, che riguarda tutti i battezzati chiamati a testimoniare con la vita e con la parola il Gesù che hanno conosciuto.

Anche questa volta Gesù risorto si improvvisò cuoco per tutta la comitiva, cui dette a mangiare pane e pesce, cotto all’impronta sui carboni. A quel pasto, però, ci fu una coda. Pietro, che si ritrovò faccia a faccia con Gesù da lui “tradito” pochi giorni prima, si sentì chiedere ben tre volte dal Maestro (e c’è nel testo greco un bellissimo gioco linguistico tra agapào e filèo: “Mi ami? Mi vuoi bene?”) Pietro rispose alla terza domanda con un deciso “ti voglio sinceramente bene: e lo sai!”. Un’espressione d’amore azzera il conto, e Pietro è confermato, nonostante la sua fragilità, nella responsabilità di Pastore della Chiesa universale. Non è mai troppo tardi per incontrare il Signore nelle diverse occasioni della vita, anche, all’apparenza, non significative.

AUTORE: Giuseppe Chiaretti