Chiamati alla festa

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Giulio Michelini XXVIII Domenica del tempo ordinario - anno A

Siamo finalmente alla terza ed ultima parabola indirizzata da Gesù ai sommi sacerdoti e agli anziani del popolo (cfr. Mt 21,23), quella degli invitati alle nozze del principe. Per commentarla, dobbiamo necessariamente premettere alcune precisazioni di tipo linguistico. Diversamente da quanto traduce la Cei, è bene notare che il verbo più ricorrente nel nostro brano è kaléo, “chiamare”, “invitare”. Lo troviamo subito due volte al v. 3, che alla lettera va reso in questo modo: “il re mandò i suoi servi a chiamare coloro che erano (già) stati chiamati alle nozze”. Il verbo è stranamente omesso dalla Cei anche al v. 4, mentre invece nel testo originale è scritto: “Di nuovo mandò altri servi dicendo: Dite ai chiamati…”.

Troviamo, infine, altre due volte il verbo “chiamare” al v. 8 e al v. 9. Queste osservazioni sono importanti, se pensiamo che alla fine della parabola, al v. 14, si trova un gioco di parole proprio con il verbo chiamare: in greco, “essere chiamati” (kletòi) ed “essere eletti, scelti” (eklektòi) suonano quasi allo stesso modo. Ancora una nota linguistica. La conclusione della parabola, “Molti sono chiamati, pochi eletti”, di cui abbiamo detto ora, è da tradurre tenendo conto che l’aggettivo “molti” è un semitismo, e significa “ognuno, tutti”. In questo senso si trova anche in Mt 26,28, nella famosa parola di Gesù “questo è il mio sangue dell’alleanza, che sarà versato per molti”, resa nella traduzione liturgica del messale con “tutti”. Potremmo quindi tradurre il nostro versetto con: “Tutti sono chiamati, ma pochi scelti”.

Detto questo, andiamo al significato della parabola. Partendo dalla sua conclusione, è chiaro che per Gesù tutti sono chiamati al banchetto di nozze, ma pochi poi decidono di parteciparvi. Di quale banchetto si sta parlando? E se l’invito è per tutti, perché i primi ad essere invitati non ci vogliono andare? Confrontando il nostro testo con una versione diversa della parabola conservata nell’apocrifo Vangelo di Tommaso, e con quella registrata anche da Luca in 14,15-24, possiamo ritenere che il significato allegorico in essa riposto riguardi la storia della salvezza: “Il re è Dio. Il figlio è Gesù. La festa per il matrimonio rappresenta il banchetto escatologico. I servi inviati due volte, come nella parabola precedente, sono i messaggeri di Dio. L’uccisione degli inviati rappresenta il martirio dei profeti e di Gesù. E la terza missione dei servi è la missione della Chiesa, nella quale bene e male si confronteranno fino alla fine dei tempi” (Davies e Allison).

Questa interpretazione funziona, soprattutto se pensiamo, come visto sopra, che i verbi chiamare e scegliere (o eleggere) sono la chiave della parabola. L’idea di chiamata o elezione è infatti fortemente presente nella coscienza di Israele. Il popolo di Israele è, per definizione, il “popolo eletto”: invitato da Dio stesso, attraverso i patriarchi, ad essere la Sua presenza visibile, esso non può però considerare l’elezione una realtà statica. Come scrive la Pontificia commissione biblica, l’elezione “è un dono d’amore da cui ne consegue un’esigenza corrispondente. […] Adottato dal Signore e diventato suo figlio (cfr. Es 3,10; 4,22-23), Israele riceve l’ordine di vivere in fedeltà esclusiva e in totale impegno verso di lui. Pertanto, per sua stessa definizione, la nozione di alleanza si oppone alla falsa convinzione secondo la quale l’elezione d’Israele sarebbe automaticamente una garanzia della sua esistenza e della sua felicità” (Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana, 37).

Anche se Dio non rigetta mai il suo popolo, in virtù della Sua elezione, è però il popolo stesso che può allontanarsi da Dio. Ogni volta che Israele è chiamato alla pienezza della vita, resta una libera scelta accettare o meno l’invito. Forse dietro questa parabola è nascosto il tema della missione ai pagani, che ad un certo punto interpella i primi cristiani. Una volta che nella comunità di Matteo ci si è scontrati con l’ostilità di molti dei rabbini e dei capi religiosi, ecco che per annunciare che Gesù è il Messia, per invitare alle nozze messianiche, ci si deve rivolgere ai gentili, ai non circoncisi. Paolo è uno dei rappresentanti di questa tensione tra rifiuto di parte di Israele e annuncio ai pagani. Così scrive: “Forse (gli israeliti) inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza per il mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale!” (Rm 11,11-12).

La fede cristiana, che poteva rimanere un fenomeno isolato all’interno del giudaismo, una delle tante sette religiose del tempo, sperimentando il rifiuto di alcuni, si è invece rivolta a tutti. È il mistero della misericordia di Dio, che non si ferma davanti a nessun ostacolo. “Non voglio che ignoriate questo mistero, fratelli, perché non siate presuntuosi: l’indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato. [‘] O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” (Rm 11,25.33).

AUTORE: Giulio Michelini